Col contributo di Alberto Rizzo – L’art.5 della legge n. 152 del 1975 – risalente agli anni di piombo – modificata nel 1977 con l’art.2 della legge n.533 e successivamente dall’art. 10, comma 4-bis del decreto-legge n. 144/2005, convertito con modificazioni dalla legge n. 155/2005, prescrive che: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro. Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l’arresto in flagranza”.
Secondo la legge italiana – e non la burletta dei Dpcm di Conte – l’uso delle mascherine non può essere obbligatorio in quanto previsto da un decreto del presidente del consiglio, il Dpcm del 14 luglio, che non ha valore di legge e, per questo motivo, non può nemmeno essere fonte di una legge, per cui tutte le ordinanze regionali in materia sono autonome e non dovute. Inoltre in questo caos di “iper-legificazione” c’è un elemento che pare essere stato completamente dimenticato: il precetto penale.
Infatti, nell’ordinamento italiano esistono ancora delle norme, di carattere penale, che vietano di comparire mascherati o comunque travisati in un luogo pubblico.
In particolare, sono due le norme fondamentali che impongono tali restrizioni:
- l’art. 85 del Testo Unico di legge sulla pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931), che così recita: “È vietato comparire mascherato in luogo pubblico. Il contravventore è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000. È vietato l’uso della maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle epoche e con l’osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall’autorità locale di pubblica sicurezza con apposito manifesto. Il contravventore e chi, invitato, non si tolga la maschera, è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000”.
- l’altra, un po’ più dettagliata, è l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Nei casi di cui al primo periodo del comma precedente, il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro. Qualora il fatto è commesso in occasione delle manifestazioni previste dal primo comma, il contravventore è punito con l’arresto da due a tre anni e con l’ammenda da 2.000 a 6.000 euro. Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l’arresto in flagranza”.
Dalla lettura di queste disposizioni sorgono due interrogativi principali: cosa vuol dire “mascherati” e quali sono questi “giustificati motivi”?
La difficile interpretazione di tali norme, invero, ha già comportato non pochi problemi, soprattutto se si pensa alla dibattutissima questione dell’abbigliamento religioso.
In particolare, ci si riferisce a determinati abbigliamenti “occultanti”, ossia quelli imposti dalla fede musulmana (burqa o hijab).
Una donna che va in giro indossando il burqa quale strumento di espressione della sua appartenenza religiosa, può considerarsi “mascherata” ai sensi delle leggi citate e, quindi, sanzionabile penalmente?
Ovviamente il problema non si pone fintanto che la donna in questione non acceda a luoghi pubblici o affollati, ovvero nei quali è necessario provvedere al suo riconoscimento, come i Tribunali o gli aeroporti.
Sono, questi, interrogativi cui la giurisprudenza ha provato a dare risposte, giungendo a conclusioni anche diametralmente opposte. La questione si era fatta tanto spinosa che, nel 2010, una parte politica aveva tentato di riformare il dettato normativo dell’art. 5 L. 152/1975, al fine di rendere più chiara la sua portata interpretativa. Infatti, il nodo gordiano della questione risiede nel fatto che la norma parla espressamente solo di “caschi protettivi”, facendo in seguito riferimento, in via residuale ed assai genericamente, a “qualunque altro mezzo” atto a rendere difficoltoso il riconoscimento.
Il problema del burqa
Ebbene, è proprio da questa indeterminatezza che sorge il problema del burqa. Infatti, che tale indumento rende del tutto impossibile l’attività di riconoscimento, è fuori di dubbio.
La proposta di modificare la norma era finalizzata a far rientrare il burqa nel novero dei “mezzi” volti a impedire il riconoscimento, ed era fondata sulla concezione secondo cui i motivi che stanno alla base del velo integrale non siano in realtà di carattere religioso, bensì solo etnico-culturale: non si tratterebbe, quindi, di un precetto imposto dalla fede religiosa, ma solo di un’usanza adottata dalle comunità islamiche più integraliste e, pertanto, non sarebbe da ricomprendere tra i “giustificati motivi” che fondano l’eccezione al precetto penale ex art. 5 L 152/75.
Tuttavia, tale prima proposta di riforma non ha trovato il seguito sperato.
Per quanto concerne la giurisprudenza, ad oggi la pronuncia più importante in materia è quella emessa nel 2008 dal Consiglio di Stato (n. 3076/2008), nella quale viene chiarito che “il burqa non contrasta né con l’art. 85 del R.D. 1931, né con l’art. 5 l. 152/75 poiché, in primo luogo, il riferimento al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico di cui all’articolo 85 del R.D. n. 773/193 non può sussistere, dal momento che il velo islamico non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa”.
Nemmeno sarebbe pertinente, a parere del Consiglio di Stato, il richiamo all’articolo 5 della legge n. 152/1975, che vieta l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.
La ratio della norma, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è quella di evitare che l’utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento.
Un divieto assoluto, quindi, vi è solo in occasione di manifestazioni che avvengano in luogo aperto al pubblico, ad eccezione di quelle di carattere sportivo che impongano tali usi, altrimenti l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento rimane vietato solo se avviene “senza giustificato motivo”.
Infine, il Consiglio di Stato ha messo un punto sulla questione, affermando che quello del burqa è “utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. (…) Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.”
Nel 2017, al riguardo, è stata avanzata un’ulteriore proposta di riforma dell’art. 5 L. 152/75, anch’essa rimasta tale, e fondata nuovamente sulla necessità di chiarire la portata troppo generica dei “mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento”. Tale ulteriore proposta poneva l’accento sulla ratio dell’art. 5, ossia quella di scongiurare atti di terrorismo con misure atte a evitare occultamenti o travisamenti di identità.
Problemi di carattere penale
Ebbene, tornando all’argomento principale, ossia all’obbligo recentemente imposto di indossare le mascherine protettive in luoghi aperti al pubblico, appare una certa similitudine con il discorso sviluppato in riferimento all’abbigliamento occultante, se non altro per quanto concerne i problemi interpretativi che possono sorgere.
Partendo dal presupposto che vi sono due norme di rilevanza penale che impongono di non comparire in luogo pubblico mascherati, o con altri mezzi che rendano difficile il riconoscimento dei connotati – se non per giustificato motivo -, pare opportuno chiedersi se effettivamente le ragioni che stanno alla base dell’obbligo imposto siano valutabili come un “giusto motivo”, tale da scriminare quel comportamento che, altrimenti, avrebbe indubbiamente rilevanza penale.
A tal proposito, è ormai pacifico che il virus si trasmetta tramite un contatto stretto con una persona infetta. È lo stesso Ministero della Salute che, nella pagina Web appositamente dedicata a fornire chiarimenti sulla natura del Covid-19, scrive: “Il nuovo Coronavirus è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto stretto con una persona malata. La via primaria sono le goccioline del respiro delle persone infette”.
Non si tratta, quindi, di un virus che aleggia libero nell’aria e, d’altronde, ad oggi non ci sono protocolli sanitari che chiariscono come l’uso delle mascherine in luoghi aperti e non affollati sia funzionale a prevenire la diffusione del contagio. Pare, quindi, che indossare la mascherina in luoghi aperti non possa essere in nessun modo un “giustificato motivo”.
A cosa serve la mascherina?
Volendo, quindi, ragionare in questi termini, si apre uno scenario alquanto sconcertante.
Appurato che indossare le mascherine per prevenire o limitare la diffusione del virus non costituisce un giustificato motivo ai sensi di legge, va da sé che tale comportamento sia penalmente rilevante ai sensi degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931.
Ebbene, basta dare uno sguardo alle strade di qualunque città d’Italia per rendersi conto di quanti cittadini, certamente convinti di fare una cosa buona e giusta, circolano indossando una mascherina.
A questo punto, dovremmo chiederci per quale motivo tutti i pubblici ufficiali in servizio, che constatano la presenza di persone dotate di mascherine in luogo pubblico, non abbiano segnalato all’Autorità Giudiziaria tali notizie di reato, rendendosi a loro volta passibili del reato di cui all’art. 361 c.p.
Oppure potrebbe essere che, in quanto le nuove norme (che impongono di indossare la mascherina in luogo pubblico) sono completamente contrastanti con le precedenti che vietano espressamente tale comportamento, si sia verificata un’abrogazione implicita di queste ultime, secondo quanto disposto dall’art. 15 delle Preleggi.
Se non fosse così, non ci si spiega come nessuno sia intervenuto a sanzionare tali comportamenti.
Ma non è tutto. Sempre partendo dall’assunto che tale comportamento sia penalmente rilevante – e che non vi sia stata un’abrogazione implicita dei precetti penali che lo sanzionano – si potrebbe affermare come le norme regolamentari, che impongono di andare in giro indossando la mascherina, di fatto stiano invitando la popolazione a tenere un comportamento contra legem.
Infatti, l’art. 414, comma primo, Codice penale, recita: “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione”.
Parrebbe, effettivamente, che sussistano tutti gli elementi costitutivi di tale fattispecie: indubbiamente i regolamenti sono divulgati “in forma pubblica” e, abbiamo appurato, impongono ai consociati di tenere un comportamento che va contro le disposizioni di cui agli artt. 5, L. 152/75, e 85, R.D. 773/1931.
Obbligatorietà dell’azione penale
Il principio dell’obbligatorietà dell’azione – che risulta ancora costituzionalmente previsto – è quindi scomparso? Ai Lettori e ai Magistrati il compito di rispondere.
Vi è, peraltro, un’ultima questione che può fornire alcuni spunti di riflessione.
Posto che in molti riterrebbero l’utilizzo delle mascherine un “giustificato motivo”, idoneo a scongiurare un eventuale contrasto con i precetti penali sopra riportati, ciò non toglie che gli obblighi imposti alla popolazione siano stati precettati esclusivamente da ordinanze e decreti regionali. Tutto ciò contrasta clamorosamente con uno dei principi cardine del nostro Ordinamento che è quello della gerarchia tra le fonti del diritto: esse non sono tutte di pari grado, bensì assumono importanza differente:
- La legge costituzionale è all’apice della gerarchia;
- seguita dalle leggi statali ordinarie,
- solo in seguito, da quelle regolamentari (sia di origine governativa, sia regionale).
La fonte superiore, chiaramente, prevale su quella inferiore e quest’ultima non può in alcun modo contraddire le fonti di grado superiore. Ciò comporta, quindi, che giammai un regolamento potrebbe imporre un precetto che sia in contrasto con quello di una legge ordinaria (quale è quella penale); in tal caso, ben lungi dall’essere rispettato, sarebbe proprio il regolamento a dover essere disapplicato.
In definitiva, le vie percorribili sono due: o è avvenuta un’abrogazione implicita degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931, poiché il loro contenuto è completamente contrastante con i nuovi regolamenti e decreti che impongono di andare in giro mascherati, oppure questi ultimi andrebbero disapplicati in favore delle leggi penali di rango superiore.
In ogni caso, il contesto legislativo in cui ci troviamo è, a dir poco, confusionario, e sarebbe auspicabile che, nonostante il periodo di emergenza e la necessità di farvi fronte velocemente, non si perdano di vista altri valori altrettanto importanti, quali quelli sanciti nella nostra Costituzione.