Chi ricorda Vittorio Emanuele III? Morì sessant’anni orsono ad Alessandria d’Egitto. La sua salma è là, in una chiesetta. Dimenticata. La sua memoria è quotidianamente infangata da accuse ingiuste lanciate da chi ne fa il capro espiatorio della storia d’Italia, una sorta di Male Assoluto.
Vittorio Emanuele III nacque a Napoli l’11 novembre 1869 da due cugini primi, Umberto I e Margherita di Savoia. Il regno d’Italia, nato il 17 marzo 1861, era gracile, senza alleati né amici. Doveva fare da sé, anche i matrimoni e anche gli eredi al trono. La sua nascita a Capodimonte significò che l’Italia era davvero unita da Torino, Firenze, Napoli, Venezia… Ma doveva ancora arrivare a Roma.
Il 9 maggio 1946 re Vittorio, quello effigiato nelle monete, nei francobolli, nella carta da bollo, coi baffi sempre più radi e lo sguardo da troppo tempo senza sorriso, abdicò e salpò da Napoli per Alessandria d’Egitto. Lasciato il titolo di re partì come “conte di Pollenzo”, in memoria di Carlo Alberto e della tenuta ove sperimentò poderi d’avanguardia. Nel 1908 aveva fondato l’Istituto Internazionale d’Agricoltura, l’antesignano della FAO che non per caso ha sede a Roma. Morì il 28 dicembre 1947, tre giorni prima che la costituzione della Repubblica condannasse all’esilio perpetuo lui e suo figlio Umberto II.
Vittorio Emanuele III fu re d’Italia per quarantasei anni. Non aveva né premura né gran voglia di salire al trono. Accettò la corona perché suo padre, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900 da un complotto internazionale che usò un anarchico per innescare in Italia il corto circuito reazione-rivoluzione.
Colto, erudito, dotato di memoria formidabile, sempre padrone di sé sino ad apparire arido e glaciale, cercò subito il consiglio di uomini saggi e indipendenti. Il senatore Pasquale Villari, uno dei grandi “padri della patria”, sollecitato a parlare con la franchezza che si deve al sovrano, gli consigliò di cacciare a pedate i cortigiani e di fare di testa sua. Il giovane re prese debita nota: l’Italia sentiva bisogno di un sovrano che tenesse strette le redini del Paese e ne garantisse la posizione internazionale e l’ordine pubblico. Però…
Però la monarchia si fondava sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, e passato tale e quale a base del regno d’Italia: patto irrevocabile tra il sovrano e la nazione. Dunque il re non era superiore alle leggi. Il re controfirmava le leggi decretate dai poteri legittimi: governo e parlamento. Il Paese rimaneva bambino. La sua dirigenza politica amava le scorribande, ma per cavarsi dai guai sentiva bisogno di una mano ferma che non sapeva darsi per via elettorale. Il regno era e rimase un sistema misto: una monarchia rappresentativa vincolata dall’articolo 5 dello Statuto che riservava al re il comando delle forze armate (senza chiarire chi dovesse davvero guidarle in caso di necessità) e il controllo supremo della politica estera (stipula dei trattati non comportanti oneri: una finzione linguistica).
Il primo governo in sintonia con il giovane re, presieduto dal democratico Giuseppe Zanardelli e con Giovanni Giolitti all’Interno, definì i nuovi poteri del consiglio dei ministri: una riforma burocratica, anziché politica e sostanziale. Vittorio Emanuele III ebbe chiaro il quadro: era il primo funzionario della Corona. Perciò prese casa lontano dal Quirinale ove andava come un impiegato all’ufficio. Vi svolgeva le “pratiche” e se ne tornava ai suoi studi e agli affetti domestici. Il re era “isolato”. Tutti litigavano come i polli di Renzo, ma per cavarsi ai pasticci si appellavano alla Corona: la “tata” di una democrazia mai nata per incapacità dei “politici” non per cattiva volontà dei Savoia.
Bersaglio di attentati (molti progettati, alcuni giunti quasi a segno: nel 1912 e, peggio, nel 1928 quando scampò di misura alla strage di Milano, costata oltre venti morti e sessanta feriti gravi), il re affrontò in prima persona i momenti più critici della vita pubblica: non per ambizione di potere personale ma per carenza di governo e parlamento.
La storiografia continua a non affrontare con sufficiente oggettività alcuni passaggi fondamentali della storia d’Italia. Trova comodo addebitare a Vittorio Emanuele III “colpe” che non sono affatto sue (posto che siano “colpe”).
Tra le molte, ne indichiamo quattro: la crisi dell’ottobre 1922 (o “avvento del fascismo”, detto anche “male assoluto”); l’ “assassinio Matteotti” (o “avvento della dittatura”); le “leggi razziali” (1938); la stipula dell’armistizio annunciato l’8 settembre 1943 (o “fuga di Pescara”).
Re Vittorio attende che la sua salma venga tumulata al Pantheon accanto a quella dei genitori. Gl’italiani hanno diritto di capire la propria storia. I piemontesi hanno il dovere di studiarla, comprenderla, insegnarla. Diversamente, perché menare vanto di aver voluto l’unificazione nazionale?
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