Tornare alla propria terra. Separarsene per sempre. Sono i dilemmi e i drammi di tanti; nei secoli li vissero anche i Savoia. Nel maggio 1814 al quarantacinquenne Vittorio Emanuele I non parve vero di tornare re dalla Sardegna a Torino. Restaurato sul trono pretese di cancellare vent’anni di storia. Nel 1796 l’Armata d’Italia di Napoleone Bonaparte aveva disfatto i generali del Regno di Sardegna, sacrificati dall’Impero d’Austria. Due anni dopo Carlo Emanuele IV fu costretto ad isolarsi in Sardegna. Il Piemonte venne incorporato dalla Repubblica francese e poi da Napoleone I. Devotissimo, il re pensò che fosse una penitenza necessaria.
Il Regno di Sardegna era frutto di sette secoli di contese, guerre, acquisizioni, acquisti veri e propri, dedizioni, eredità. Il fondatore della dinastia, Umberto dalle Bianche Mani, è avvolto nella leggenda: sassone, borgognone, provenzale o italico? Conte di Savoia, Belley e in Moriana, fu feudatario del sovrano della Borgogna, relitto dell’impero di Carlomagno diviso tra Francia, Germania e la Lotaringia. I conti di Savoia capirono presto di non avere molto spazio in Francia. Parteciparono a tutte le imprese dell’Europa cristiana: crociate e spartizione dell’Impero di Bisanzio con titoli da spendere al tavolo delle alleanze. Nel 1946 Vittorio Emanuele d’Italia ancora era re di Cipro, di Gerusalemme e di Armenia… E possedeva la Sacra Sindone, da suo figlio Umberto donata al Papa.
La fantasia è smisurata, la realtà pragmatica. I conti di Savoia accrebbero i domini. Amedeo VI ottenne la dedizione di vari comuni. Nel 1388 suo figlio, Amedeo VII, mise a segno il colpo grosso: Nizza Marittima. Amedeo VIII fece di più. Duca di Savoia dal 1415, ingrandito e riordinato lo Stato, lasciato il potere per l’eremo di Ripaille, nel 1439 fu eletto Papa col nome di Felice V. Attinse il Cielo.
La Savoia era uno Stato frontaliero, esposto ai venti delle grandi potenze: tanti valichi sulle Alpi e un’ampia pianura difficile da difendere. Perdute la Savoia e Nizza, nel 1553 Carlo III il Buono morì a Vercelli in un Piemonte devastato. Sembrò la fine. Invece nel 1557 suo figlio Emanuele Filiberto sconfisse Enrico II di Francia per conto di Filippo II di Spagna. La pace di Cateau Cambrésis nel 1559 gli confermò il ducato, ma dovette riconquistarselo cominciando da Nizza e dalla fedelissima Cuneo. Mentre la Francia precipitava nelle guerre di religione tra cattolici e ugonotti, nel 1561 concesse ai Valdesi libertà di culto nelle loro valli: caso unico di tolleranza nell’Europa che obbligava i sudditi a praticare la religione del sovrano, in base alla regola cuius regio eius et religio.
Con Emanuele Filiberto Casa Savoia scelse il Piemonte. Trasferì la capitale da Chambéry a Torino, adottò l’italiano quale lingua ufficiale, restaurò l’Università e sostituì gli statuti comunali con le proprie leggi. Fece anche grande politica. Nel 1571 tre navi sabaude furono fulcro della flotta che a Lepanto fermò l’avanzata dei turchi-ottomani, vittoria solennizzata da papa Pio V, nativo di Bosco Marengo, con la devozione alla Madonna del Rosario. La strada era tracciata. Ma seguitarla non fu semplice. Suo figlio, Carlo Emanuele I, guerreggiò mezzo secolo per annettere il Saluzzese in cambio di ricchissime terre d’Oltralpe, il marchesato del Monferrato, e persino la Provenza. Tante ne pensò, parecchie ne fallì.
Tra il Seicento e Settecento Vittorio Amedeo II riassunse speranze e delusioni, sconfitte e vittorie. Nel 1690 fu travolto presso Staffarda dal maresciallo di Francia Catinat che applicava la «terra bruciata». Luigi XIV, il Re Sole, nel 1706 assediò Torino, salvata dall’arrivo di Eugenio di Savoia con un esercito imperiale. A Vittorio Amedeo bastava battere il piede per veder scaturire guerrieri da ogni parte. Anche la Savoia fece la sua parte. Gli era devota. Con la pace di Utrecht, nel 1713 Vittorio Amedeo II ebbe la corona di re di Sicilia. Modernizzò lo Stato, anche dopo il cambio dell’isola del Sole con la Sardegna, meno appetita e meno rischiosa. Suo figlio, Carlo Emanuele III, ne continuò l’opera.
Nei secoli conti duchi e re sabaudi coltivarono sapientemente la politica matrimoniale. Adelaide signora di Torino, Gisla di Borgogna, Iolanda di Monferrato, Bianca Maria Sforza, Beatrice di Portogallo, Margherita di Francia, Caterina di Spagna, Maria Giovanna Battista di Nemours, Polissena Cristina di Assia …, non furono solo ritratti di una galleria di famiglia ma timone per navigare tra guerre e paci, prima che lo stato patrimoniale divenisse monarchia rappresentativa. Anche le nozze di Vittorio Emanuele di Napoli con Elena di Montenegro (1896) e quelle di Umberto di Piemonte con Maria José del Belgio (1930) furono politiche.
Vittorio Amedeo III completò l’opera degli antenati sposando Maria Antonietta di Borbone- Spagna e legò il regno alla Francia e all’Impero con le nozze dei figli, Carlo Emanuele IV e Vittorio Emanuele. I Savoia erano dunque il perno delle grandi alleanze, ma la Rivoluzione francese infranse tutto. Dal 1792 il regno fu investito dall’Armata di Francia: sei anni di guerra durissima, finita con la sconfitta e l’«esilio» in Sardegna. Carlo Felice sposò Maria Cristina di Borbone proprio quando il padre, Ferdinando IV, fu cacciato da Napoli e costretto a rifugiarsi in Sicilia sotto tutela dell’inglese lord Bentinck. L’unione dei Savoia coi Borbone era la lega dei perdenti?
Nel 1814 la Restaurazione capovolse il corso della storia. Oltre agli antichi domini Vittorio Emanuele I ebbe la repubblica di Genova. Sette anni dopo i liberali piemontesi chiesero la costituzione. Per non tradire il giuramento di non concederla mai, Vittorio Emanuele I abdicò a favore di Carlo Felice, alla cui morte la corona passò a Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano, parente in tredicesimo grado, perché così vuole la successione in Casa Savoia: di maschio in maschio (legge salica), nati da matrimoni autorizzati dal Capo Famiglia (regie patenti del 1780-82).
Dopo trent’anni di esitazioni il 4 marzo 1848 Carlo Alberto concesse lo Statuto, adottò il tricolore italiano, decretò che la differenza di culto non discrimina i regnicoli, fece guerra all’Austria per l’indipendenza d’Italia, perse, abdicò, morì esule, italo Amleto «per tant’anni bestemmiato e pianto», come ne scrisse Carducci in Piemonte. Suo figlio, Vittorio Emanuele II, appena ventinovenne, ereditò il brut fardèl, il peso della Corona. Nel luglio 1858 autorizzò gli accordi segreti di Plombières tra Cavour e Napoleone III di Francia: la cessione di Nizza e della Savoia, valli monti e mezzo milione di abitanti, in cambio di Lombardo- Veneto, ducati padani, Emilia-Romagna e poi chissà…
Dopo le vittorie franco-piemontesi sull’imperatore d’Austria, l’armistizio di Villafranca e la pace di Zurigo del 10 novembre 1859, il 24 marzo di 150 anni orsono il patto venne saldato con la cessione avallata da un plebiscito. «Monsù Savoia» risultò straniero all’Italia come il nizzardo Giuseppe Garibaldi. Figlio di Maria Teresa di Asburgo-Lorena e marito di un’altra Asburgo, congiunto di Francesco II delle Due Sicilie, quando il 17 marzo 1861 divenne re d’Italia Vittorio Emanuele aveva una figlia sposa di Gerolamo Bonaparte, cugino di Napoleone III, un’altra regina di Portogallo, un figlio, Umberto, destinato alla corona d’Italia e un altro, Amedeo duca d’Aosta, poi re di Spagna.
Dopo la cessione della Savoia il francese non fu più lingua ufficiale al Parlamento ma molti savoiardi rimasero fedelissimi al loro re. Fu il caso di Luigi Pelloux, presidente del Consiglio a fine Ottocento. Nei Savoia rimase la nostalgia della patria smarrita: un pensiero costante di Vittorio Emanuele III nell’esilio in Egitto e di Umberto II a Cascais in Portogallo. Il secolare percorso a spirale, dalle vette ai mari, si chiuse nel 1983 con la deposizione di Umberto II nell’avello dell’Abbazia di Hautecombe, mausoleo della Casa, di fronte alla tomba di Carlo Felice: alfa e omega della dinastia. Si tratta d’una vicenda ricostruita carta su carta dalla principessa Maria Gabriella di Savoia, storica della Casa.
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