Zucchina o zucchino pari sono –
Caro Guenna,
in tanti anni di collaborazione, dovrebbe avere apprezzato che cerco di difendere la lingua italiana almeno quanto lei e di non averle mai dato motivo di avere agito intenzionalmente in senso contrario. È per questo che spero che userà a proprio vantaggio (e non a mio danno) le mie severe critiche al suo articolo sugli “zucchini”, che sembra scritto da persona che ha usurpato il suo nome oppure sotto l’effetto di una calura infernale. Cercherò di essere breve e di puntualizzare quegli errori che rendono l’articolo controproducente perché smentiscono le sue stesse tesi sulla necessità di rispettare le regole grammaticali, lessicali, ortografiche (e anche sintattiche, naturalmente, anche se qui non se ne parla).
Liquiderò brevemente i suoi due “cavalli di battaglia” (perché li ho trovati tali e quali anni fa in almeno uno degli articoli a sua firma). “Campanello” o “campanella”: concordo che sulla bicicletta o sul portone di casa il genere sia maschile, perché (oggi) richiama poco la forma e il funzionamento tipici della campana, ma attenzione al “Paese dei Campanelli” e ai campanellini che si mettono al collo di animali o alle caviglie dei monatti. “Zucchino” e “zucchina” invece devono essere accettati come sinonimi di pari dignità, perché il loro genere è fortemente influenzato dall’uso regionale e una forma sarà più o meno gradita (compresa) dell’altra a seconda della regione in cui la si usi: io vorrei essere libero di chiamare “spagnoletta” l'”arachide”, perché così si diceva (e si dice) a casa mia, anche se in gran parte d’Italia non si capirebbe o si fingerebbe di non capire.
“Goloso”: i dizionari lo assimilano anche ad “appetitoso” e perciò non si può rifiutare. Del resto, nessuno ce l’ha contro “curioso”, che ha la stessa doppia caratteristica attiva e passiva di “goloso”.
Su “disegniamo” e “insegniamo” abbiamo vinto la battaglia solo perché quegli asini (stranieri) che hanno in mano i “correttori ortografici” dei computer si sono convinti, per ora, a scrivere così; ma stiamo attenti che quegli stessi asini sono responsabili della sparizione da ogni testo giornalistico di tutti gli “a cui”, di tutti i “familiari” e di un’infinità di altre forme che sono corrette e raccomandabili, ma sconosciute a giapponesi e americani informatici ignoranti (ma “dottorati” a suon di dollari). Ho invocato spesso (invano) di indire “class action” e di chiedere il rimborso per i danni causati alle culture locali dai compilatori di correttori ortografici (e sintattici!) stranieri e illetterati. Ho appena finito di leggere un nauseabondo libro di un mio ex compagno di liceo (quindi dei tempi della scuola buona, secondo lei) che, nonostante sia stato un avvocato di successo, scrive “valigie” con la “i” solo due volte su 25, a causa del “correttore ortografico” usato (lo stesso avvocato sulla funicolare che un giorno ci portava a Brunate, sopra Como, elogiava la comodità del mezzo di trasporto chiamandolo disinvoltamente “gremagliera”).
Se ben ricorda, il verbo “avere”: negli anni ’70, quando ancora non c’era la parola “informatica”, figuriamoci i “social”, ai bambini si insegnò d’autorità (ogni politico che “monta in scagno” vuole lasciare il segno) a coniugarlo senza la “acca” ed è normale che chi a quel tempo era bambino lo scriva ancora oggi così (hanno dimenticato di dar loro il “contrordine, compagni”); fra qualche anno saranno tutti morti e “quel” problema non si porrà più (ma l’informatica avrà fatto, come sta facendo, danni ben più gravi. Io ho conosciuto Degli Antoni e i suoi allievi e ne sono già rimasto scottato).
Sugli “apostrofi che diventano accenti” (e spesso viceversa, e spesso con accenti “abusivi”, come in “stà”, o “fà”, o “dò”) invece ha pienamente ragione, ma bisogna essere ben preparati per farsi ascoltare e credere: provi su lei stesso a spiegare la differenza tra “vo” e “vo'” (e “vò”?). Curioso è anche “sta”, che esiste con l’apostrofo iniziale “‘sta finestra”.
Ed eccoci al tasto dolente dell’apostrofo di “una”, dove, pur avendo ragione nella sostanza, usa argomenti raccapriccianti. Ecco che parla di “aggettivi neutri”, che NON esistono in Italiano, ma che lei chiama “né maschili, né femminili”, perché terminano con la “e”. Ma neanche in Tedesco o in Russo, tantomeno in Latino, dove l’aggettivo ha la “forma neutra” (neanche lì c’è l'”aggettivo neutro”), esiste una simile definizione. Quindi, il problema in questione si sarebbe dovuto spiegare così:
<l’articolo indeterminativo femminile “una” perde la “a”, sostituendola con l’apostrofo, se è seguito da un nome, pronome o aggettivo (ovviamente femminili, altrimenti l’articolo non sarebbe “una”) la cui iniziale è una vocale>.
In questa regola introduco il pronome, che lei non aveva neanche preso in considerazione (per esempio: “un’altra”) e sparisce l’assurdità del fantomatico “aggettivo neutro” (per esempio: “un’utile invenzione”, “un ottimo cineasta”, “un entusiasta studioso”, “un’esemplare punizione”). Certamente prima di trattare simili argomenti si deve sapere distinguere con sicurezza fra sostantivo, aggettivo e pronome, dato che la lingua italiana, a somiglianza della russa e al contrario dell’inglese, non impone che l’aggettivo preceda il sostantivo, per cui: “un acrobata agilissimo”, “un’esaltante prestazione”.
E nel paragrafo “strafalcioni ad libitum” le stranezze sulla paroletta “una” continuano nella difficile frase “…..mentre sarebbe meglio farne una utile (in questo caso “una” è scritto senza apostrofo in quanto è diventato sinonimo di rivoluzione e non è più un articolo)….”; è vero che “una” qui non è articolo, ma occorre precisare, a costo di provocare un trauma, che è un pronome, di cui “utile” è l’aggettivo, ovviamente femminile; e quindi non si può parlare di apostrofare “una” quando è pronome. Aggiungo che da sempre si scoraggia l’uso di “in quanto” quando non sia correlato con “in tanto” e un giornalista provetto non dovrebbe cadere in tali trappole: invece di “in quanto” è mille volte meglio (e più semplice) usare “perché”.
E andiamo avanti. Tra “schiena dritta” e “testa alta” vale sempre il discorso dell’uso regionale (in Italia ci sono moltissime “sottolingue” che dopo il 1861 non hanno smesso di svilupparsi, né smetteranno per altri secoli a venire); nel caso specifico non si può escludere la “straight back” inglese, ma sarebbe interessante sapere attraverso quale percorso ci sia pervenuta. Idem per gli altri termini citati come “anglicismi” (“preziosità” “emozionale”, “solare”, ecc.), che però sono troppo bene assestati per poter essere accanitamente osteggiati: perché allora non si dice niente contro “sport” o “stress”? (E che dire di “variegato” e “intrigante”, intrufolatisi a sostituire il significato di parole già esistenti?). I Russi per esempio ospitano un gran numero di parole straniere fin dai tempi di Pietro il Grande, ma le declinano o coniugano tutte, mentre noi timidamente arriviamo solo fino a “monitorare” e a “scannerizzare”, storpiando le altre nei modi più disordinati (certi fisici usano da tempo “laserare” per indicare la “creazione di un effetto LASER”; e tutti sanno, spero, che LASER è di per sé un acronimo).
E passiamo a “indagare”: ogni vocabolario lo dà come transitivo e intransitivo da sempre, e quindi accettiamolo nel “registro degli indagati”, tanto più che in tal caso è un termine tecnico che può essere sostituito solo cambiandone più o meno profondamente il significato.
Sulla Consulta non ho competenza e mi sembra che la sua spiegazione non dia adito a obiezioni.
Su “alcuno” e “nessuno” pesa il problema della doppia negazione, che in Italiano dà adito a interpretazioni ambigue, ma è solo sconsigliata per motivi “estetici”: sarà cura del bravo scienziato divulgatore evitare le ambiguità, mentre al poeta, come sempre, ogni licenza è permessa.
Dell’apostrofo confuso con l’accento si è già parlato; dimenticavo che molti vecchietti a cui è stato dato in mano improvvisamente uno “smart-phone” o un “tablet” hanno difficoltà a usare la tastiera “touch-screen”: non trovano la vocale accentata e per non perdere la vista e non rompere lo schermo toccano l’apostrofo; hanno tutta la mia comprensione da coetaneo.
Quanto a “in-cinta” per me è una novità assoluta e ringrazio per l’informazione. Certo che ai nostri tempi si diceva, sempre sottovoce, “in istato interessante”, mentre “incinta” era una parolaccia da evitare di fronte a giovani in età scolare. Non mi meraviglio che gente di ogni livello di istruzione abbia poi preso la cantonata, ma sono sicuro di non averla mai sentita dalle nostre parti (Lombardia e Veneto, da dove proviene la mia famiglia).
Ne approfitto per aggiungere due miei “pallini” che mi assillano negli ultimi tempi perché di uso (errato) sempre più frequente, ma senza trovare opposizione neanche da parte dei più istruiti e sensibili.
Il primo riguarda il verbo “avere”, che sempre più, e secondo l’uso extracomunitario, diventa “ciavere”. Io sono comprensivo e tollerante coi dialetti, ma non ammetto che si scriva “c’ho”, “c’abbiamo”, pronunciando “ciò” e “ciabbiamo”. Spero che la pensi come me.
L’altro riguarda certi verbi riflessivi transitivi usati col “complemento di termine” invece che col normale “complemento oggetto” (pronominale, in questi casi): “a me spaventa”, “a me preoccupa”, “a me sorprende”, ecc. si sente dire in ogni intervista, vantandosi di non aggiungere il “mi” di “a me mi sorprende”, “a me mi spaventa”, ecc. come se con ciò ci facessero una gran concessione. Invece l’errore rimane ed è grosso.
Quindi, quando se la prenderà ancora con le cattive abitudini e i cattivi esempi linguistici, le raccomando di metterci anche questi due.
E poi ci sarebbe “avremo molti più soldi”, “ci vorranno molte meno ore” invece del corretto uso dell’avverbio rafforzativo “molto” davanti all’avverbio comparativo “più”: ma ormai chi li corregge più questi padroni del cervello umano? E soprattutto: quali cervelli umani (o anche elettronici) si accorgono più di questi errori? In coscienza, lei se ne accorge? Scommetto di no. Eppure sono tutti strafalcioni più gravi e soprattutto più frequenti (e volgari, cioè irrispettosi della lingua) di “zucchine” e “campanelle”. Un amico più giovane proponeva di compilare uno “stupidario”, ma in poco tempo si accorse che sarebbe stato un volume enorme e rinunciò. Io temo soprattutto di non riuscire a destare l’interesse della gente, soprattutto di quella che riteniamo “più istruita”.
In conclusione io dissento dalla troppo facile e romantica sentenza: “Insomma, noi Italiani, beneficiari della lingua più bella e completa del mondo, importiamo termini linguistici dai barbari e li mescoliamo ai nostri. Usiamo la lingua degli altri e non ci rendiamo conto di quanto sia bella la nostra. E i barbari, alla fine, siamo noi”. Non è per niente vero: intanto, il fenomeno non è solo italiano e l’ignoranza è “globale”. Per quanto riguarda l’Italia, poi, le parole che re-introduciamo sono per la maggior parte di origine latina (o greca), ma gli stranieri le hanno sempre usate male e noi le abbiamo dimenticate ben prima che arrivassero Dante e Manzoni. La mia opinione invece, soprattutto dopo aver letto il suo articolo basato su una grammatica molto “fai da te” (e scusi l’inglesismo), anche se costruita rispettabilmente in Famiglia, è che abbiamo avuto cattivi maestri e che stiamo per averne di sempre peggiori, perché essi non vengono più dalla scuola, che comunque è sempre stata poco affidabile, ma dai mezzi di informazione controllati da non meglio definiti e qualificati “giornalisti”. Anzi, oggi non ce n’è uno che non venga presentato in TV come “giornalista-scrittore” o, peggio, “giornalista-divulgatore scientifico”. Fra i mezzi di informazione il più deleterio è ovviamente Internet, su cui scrivono e blaterano cani e porci (animali che nel frattempo acquisiscono sempre maggiore rispetto, grazie ai vari “movimenti”). Basterebbe che la scuola insegnasse (imponesse) la modestia e la curiosità; il resto verrebbe da sé (magari anche un paio di lingue straniere imparate su libri di grammatica, invece che con le “grandi esperienze” internazionali, tipo Erasmus).
Chiarisco che non mi farebbe piacere se questa lunga predica significasse la fine della nostra collaborazione, ma la avverto che non intendo ritirare una sola sillaba di ciò che ho scritto, come al solito con tanta fatica e passione.
Anzi: aggiungerò un aneddoto. Domenica scorsa il mio unico nipotino alla vigilia del terzo compleanno, parlava con uno degli zii di un certo gioco che lo zio sosteneva riuscisse meglio se fatto a casa sua. Senza pensarci due volte il nipotino esclamò: “Papà, domani “vado a casa loro” a giocare!”. Non so se si rende conto del difficile contenuto grammaticale di quel “vado a casa loro”, che mi ha profondamente commosso. Ecco: prima di morire vorrei poter riuscire ad approfondire con questo bambino prodigio almeno una parte dei problemi trattati in questa lettera, senza essere influenzato negativamente dall’ignoranza che di questo passo ci sommergerà nei prossimi dieci anni (nella prossima “decade”, direbbero gli “scienziati internazionali”, italiani di Erasmus compresi, e giornalisti scientifici, naturalmente, senza sapere che da noi significa “dieci giorni”, come si evince chiaramente dall’origine latina).
La ringrazio, ma resto sulle mie posizioni pur ammettendo la fondatezza delle sue.
Specialmente per quanto riguarda lo zucchino che, pur diventando grosso, non sarà mai una zucca. Mentre gli ausiliari sono solo e sempre “essere” e “avere” e non “andare” e “venire”.
Va da se che la sua collaborazione è per noi un vanto e mi auguro che prosegua all’infinito.
Con viva cordialità.
Guenna