di Andrea Rovere – Una storia che viene da lontano quella delle ingerenze statunitensi in America latina, e a quanto pare ci risiamo. Washington, dopo gli anni spesi a destabilizzare il Medioriente col solito pretesto dell’“esportazione della democrazia”, torna con Trump a guardare al “giardino di casa”, e riparte all’attacco del Venezuela. Il copione è sempre lo stesso: da un lato, il feroce dittatore che affama la popolazione; dall’altro, il baldo cavaliere della libertà pronto a sostituirsi a lui. Non c’è bisogno di dire che il sedicente dittatore, piaccia o no, è il legittimo presidente del Venezuela indisponibile ad inchinarsi agli USA, mentre l’altro, il giovane che piace ai giovani (per lo più a quelli della cosiddetta “Erasmus generation”), è l’ennesimo ariete utilizzato da potenze extranazionali per espugnare le mura di uno Stato sovrano e porlo sotto il proprio controllo. Ed è dai tempi della “dottrina Monroe” che funziona più o meno così, quando di fatto fu deciso che le terre dal Messico alla Patagonia dovevano considerarsi come proprietà naturale degli Stati Uniti in virtù di una “legge di gravità politica” che poi significa in sostanza il diritto di farla da padroni a casa d’altri.
Se non fosse che, nel 1959, fu un Papa a mettercisi inaspettatamente di mezzo, e nello specifico Giovanni XXIII, con quell’idea di una “Chiesa dei Poveri” (ci riferiamo al Secondo Concilio Vaticano) che in America latina fu recepita in modo molto preciso dando origine alla “Teologia della Liberazione”. In sintesi, un gran numero di suore e preti (rarissimamente qualche alto prelato) cominciarono davvero a lottare per i poveri scendendo al loro fianco, spogliandosi di tutti i propri beni e facendo del messaggio evangelico una missione portata avanti con azioni concrete nel quotidiano. Scelta che li pose da subito in aperto conflitto coi superiori, cioè vescovi, arcivescovi e cardinali da sempre allineati ai potenti della politica, i quali, in questo caso, erano rappresentati dal Governo USA a marchio Kennedy. Fu infatti il paladino dei “Dem” di mezzo mondo che, tanto quanto il suo successore Johnson, si lanciò in difesa degli investitori americani dando avvio ad un’escalation di terrore che arriva fino ai giorni nostri: dal golpe in Brasile finanziato appunto da Kennedy a quelli sparsi qua e là finanziati da Kissinger, da Carter e Reagan in Nicaragua, fino ai Bush ad Haiti, Clinton finanziatore degli squadroni della morte in Colombia, e Obama a sostenere il golpe in Honduras e ad armare nuove basi militari a destra e manca. Insomma, massacri e vere e proprie espropriazioni di risorse a tutto spiano, le quali hanno innescato quelle reazioni che ci portano oggi a Maduro, essendo il socialismo sudamericano figlio delle ingiustizie perpetrate troppo a lungo da governi stranieri in Paesi ai quali – come succede parimenti seppur in modo peculiare nel continente africano – si è impedito con tenacia di perseguire uno sviluppo autonomo e scelte in piena libertà.
Ed eccoci dunque alla resa dei conti col Venezuela che, dopo il naufragio della rivoluzione bolivariana, si presta ad essere anch’esso “conquistato” dagli yankee così come lo è già circa l’85% dell’America latina, retta da governi “zerbino” del Fondo Monetario Internazionale e ovviamente inneggianti l’ennesimo regime change. Cosa che tuttavia, quantunque possa in effetti verificarsi presto, andrebbe, non solo attribuita all’azione di forza perpetrata ai danni del Paese dall’esterno (sanzioni americane, blocco dell’oro venezuelano da parte della Gran Bretagna, connivenza della UE), ma anche a quella debolezza interna che rimanda ad un fatto ineludibile: i leader socialisti latino americani hanno fatto errori enormi specie per quanto concerne le politiche economiche, e il Venezuela in particolare si trova nella terribile situazione in cui fra la padella-Maduro e la brace-Guaidò c’è poco da stare allegri. L’ipocrisia, la corruzione e le ruberie alle quali troppo spesso si è finiti per indulgere hanno minato profondamente la credibilità di alcuni governi detti socialisti, tanto che la gente si trova oggi per lo più smarrita e senza la minima motivazione. Altro che i bagni di folla a supporto del regime o dei golpisti che ci presentano ogni giorno i Tg nostrani. I più se ne stanno a casa senza sapere che pesci pigliare e, quindi, visto che porre uno stop decisivo all’infame “dottrina Monroe” non è alla portata di questi tempi, l’unica via percorribile appare per ora quella del negoziato, anche se si tratta di una stretta mulattiera di montagna e non certo di un’autostrada.
Nel frattempo, in giro per il mondo ci si limita a dividersi fra pro e contro Maduro, senza curarsi però del fatto che una sostanziale differenza verrebbe soltanto dalla capacità delle ormai tragiche sinistre postmoderne di porre in atto una severa autocritica e, con umiltà, seguire le orme di Papa Giovanni XXIII, forse il più indicato oggi a dar loro lezioni di socialismo.