di Mauro Bottarelli (Business Insider) – Tempo di record infranti per la Cina, quello che stiamo vivendo nell’attesa del G20 di fine mese a Buenos Aires, vertice che nelle speranze di tutti dovrebbe portare alla pace commerciale fra Washington e Pechino.
Peccato che siano tutti record negativi.
E strutturalmente, negativi.
Anzi, a livello sistemico.
Il primo riguarda quello che possiamo definire il “bancomat globale” nell’epoca del Qe perenne, ovvero l’impulso creditizio garantito ai mercati dai dollari off-shore cinesi messi in circolo dalla politica di espansione creditizia della Pboc, la Banca centrale. Di fatto, il corrispettivo da eccesso di liquidità e sovra-produzione (con tanto di esportazione di deflazione), dei petrodollari degli anni Ottanta, un balsamo per il sistema finanziario.
La lettura dell’impulso creditizio cinese di ottobre, di fatto ottenibile dal dato del cosiddetto Social financing, è ben peggiore delle attese più cupe: il finanziamento aggregato è stato di 728,8 miliardi di yuan contro i 1.300 miliardi atteso dal consensus e i 2.170 miliardi di settembre.
I nuovi prestiti in yuan sono stati pari a 697 miliardi contro le stime di 904,5 miliardi e l’1.380 miliardi di settembre.
Infine, la fornitura di massa monetaria M2 è cresciuta dell’8% contro l’8,3% del mese precedente. Insomma, una delusione su tutta la linea. Confermata come nuova realtà con cui fare i conti da fonti ufficiali, visto che il premier cinese, Li Keqiang, ha dichiarato che “la Cina non utilizzerà stimolo eccessivo per supportare l’economia e non svaluterà lo yuan per facilitare le esportazioni”.
Da qui la conclusione tratta nel suo report da Charlie McElligott, managing director di Nomura, a detta del quale “la chiave per una stabilizzazione nei rischi sugli asset, a questo punto risiede tutta nelle evoluzioni che potranno esserci al G20. Ciò con cui abbiamo a che fare oggi, infatti, è un combinato di contrazione delle condizioni finanziarie, carenza di liquidità in dollari, restrizione monetaria delle principali Banche centrali e tariffe commerciali, tutte criticità che stanno colpendo al medesimo tempo. A questo punto, uno scenario minimo da attendersi a quello di un rinvio delle nuove sanzioni attese per gennaio 2019. Questo perché se da un lato tutti i proxies dell’economia a livello globale ci offrono un’ottica molto negativa, dall’altro il dato dell’impulso creditizio cinese è molto peggiore di quanto ci si aspettasse”.
Ma, come anticipato, i record in negativo di Pechino sono molti in questi ultimi giorni, a partire da quanto emerso a livello ufficiale tre mesi fa, quando la Cina per la prima volta dal 1998 ha presentato un deficit di conto corrente nella prima metà dell’anno.
Di fatto, una realtà con molte implicazioni ma una su tutte le contempla al meglio: maggiore dipendenza dal finanziamento estero.
L‘entusiasmo internazionale per i bond corporate cinesi è letteralmente collassato. Forse frutto di un combinato fra yuan deprezzato e minore premio pagato rispetto ai tassi Usa, le detenzioni stranieri denominate in valuta cinese sono aumentate solo di 250 milioni di yuan (35,9 milioni di dollari) a ottobre, raggiungendo la cifra generale di 1,44 trilioni di yuan ma conoscendo un aumento su base mensile solo dello 0,02%, stando a dati del Wall Street Journal (sopra). Un trend cominciato a giugno, quando si raggiunse il picco di crescita mensile, +8,9%, il massimo da 21 mesi e proseguito fino al tracollo attuale.
Ma ecco che, stando ad analisi di JP Morgan, il quadro diventa ancora più fosco, visto che per la prima volta da febbraio 2017, le detenzioni di bond cinesi da parte di investitori esteri hanno conosciuto un outflow.
Perché questo dato dovrebbe interessare tanto il mercato? Perché se le istituzioni finanziarie, come le Banche centrali o i Fondi pensione, detengono solo l’1,7% del mercato obbligazionario cinese, un casinò da 12.000 miliardi di dollari di controvalore (il terzo al mondo dopo Usa e Giappone), è altresì vero che controllano ben l’8,1% del debito governativo centrale, un mercato da 2 mila miliardi di dollari.
E più lo yuan continuerà a deprezzarsi, più è possibile che la fuga dalla Cina prosegua, un trend decisamente poco piacevole in assenza di quel surplus di conto corrente che era divenuto una certezza ventennale.
Di fatto, una strada quasi senza uscita per la Pboc, la quale deve fronteggiare appunto il nascente deficit da un lato e dall’altro il continuo indebolimento dello yuan come conseguenza della guerra commerciale, un trend che sta spaventando – già ora – i detentori obbligazionari esteri. E siccome l’unico controbilanciamento alle due dinamiche appena elencate sarebbe un aumento dei risparmi interni – e, di converso, un collasso dei consumi -, se si dovesse proseguire si questa strada, l’epilogo potrebbe tradursi nella parola più temuta: recessione.
Ma il problema sta a monte. Ovvero, il fatto che al 30 settembre scorso, l’azienda avesse 1,3 miliardi di cash in cassa a fronte di un carico debitorio a breve termine di 8,4 miliadi di yuan. E non si tratta affatto di un caso isolato.
Ma i record negativi, purtroppo, non sono affatto finiti. E hanno anche implicazioni dirette per il resto del mondo, Europa in testa, quando di parla ad esempio di mercato automobilistico.
La Cina, infatti, è stata dipinta per anni come la cosiddetta saving grace del comparto a livello globale, stante la sua prospettiva di crescita apparentemente infinita. A ottobre le vendite di autoveicoli in Cina sono state letteralmente un disastro, di fatto offrendo un proxy da rallentamento globale per l’intero settore.
Si tratta di un -12% su base annua a quota 2,38 milioni di unità, stando a dati del Wall Street Journal e di Bloomberg.
I quali, scorporati, offrono un quadro ancora più allarmante: al netto dei soli veicoli commerciali che vedono le vendite rimanere positive a livello annuo (+5,5%), nonostante il -3% di ottobre, nei primi dieci mesi del 2018 il mercato cinese nel suo insieme è a -1%, la prima lettura negativa in quasi trenta anni. E con i produttori europei già in lotta per sopravvivere e con una dipendenza sempre maggiore dal lato finanziario e di erogazione di credito al consumo in scapito del core business della vendita di veicoli, il quale da gennaio subirà il contraccolpo della fine degli acquisti di bond corporate da parte della Bce, il netto e ormai strutturale rallentamento del mercato cinese non può che rimandare prospettive fosche per il futuro.
A meno che questo ennesimo tassello nel mosaico della nuova crisi dell’eurozona – certificato nei giorni scorsi dalla contrazione del Pil tedesco nel terzo trimestre, -0,2%, la prima volta dal 2015 – non garantisca, come avvenuto nell’ultima tornata, l’accesso emergenziale alle aste Ltro di finanziamento a lungo termine, cui la Bce starebbe già pensando per la prossima primavera, anche alle finanziarie delle case automobilistiche.
Per finire, il record più preoccupante. Non fosse altro perché al centro di quel colossale schema Ponzi che è il sistema bancario ombra cinese e la sua derivazione miliardaria nel mercato obbligazionario, soprattutto junk. Il frutto amaro della bolla immobiliare cinese, infatti, è servito, sotto forma di decine di milioni di appartamenti e immobili completamente vuoti in tutta la nazione.
A confermarlo sono le risultanze, anticipate da Bloomberg, del China Household Finance Survey condotto dalla Southwestern University of Finance and Economics e coordinato dal professor Gan Li: più di 50 milioni di unità abitative sono completamente inutilizzate. Un’enorme magalopoli fantasma.
La ragione di questa situazione a imbuto che ha portato a una saturazione dell’offerta senza precedenti è semplice: per mantenere bassa la disponibilità di immobili e artificialmente alti i prezzi, nei tempi di crescita spedita si è tolta dal mercato una fetta molto ampia di disponibilità reale. Una dinamica simile, però, funziona in ambo le direzioni: quando appunto l’economia tira e la speculazione inonda il mercato immobiliare di denaro, tutto funziona. Quando però il trend si inverte, il riversarsi in massa sul mercato di offerta porta a una liquidazione da panico, a un crollo dei prezzi e, nella fase terminale e peggiore, a un vero e proprio crash del settore, come accaduto per la bolla Usa del 2006.
Il grido d’allarme è del professor Gan, noto economista cinese: “Non esiste nessun’altra nazione al mondo con un tasso di immobili vuoti come quello cinese. Se dovesse emergere un qualsiasi incidente nel mercato immobiliare, le case che verranno scaricate colpiranno la Cina come un’inondazione” (Nella foto: palazzi appena costruiti a Pechino e ancora vuoti. Sembra siano decine di milioni gli appartamenti sfitti).
Anche perché, stando a calcoli di Caixin, i mutui immobiliari in essere in Cina sono esplosi di sette volte dal 2008 ad oggi, passando da un controvalore di 3 trilioni di yuan (430 miliardi di dollari) ai 21,86 trilioni del 2017.
E stando a dati riferibili fino alla fine dello scorso settembre, i mutui immobiliari sono cresciuti di un altro 18% su base annua, raggiungendo il record di 24,9 trilioni di yuan, un trend che – sempre stando all’analisi di Caixin – “ha tramutato moltissime persone e nuclei familiari in veri e propri schiavi del mutuo“.
In totale, i mutui immobiliari pesano per oltre la metà del debito privato totale in Cina, visto che nel terzo trimestre di quest’anno incidevano per il 53% della bolla da 46,2 trilioni di yuan di indebitamento personale. Una bomba ad orologeria che ticchetta nel cuore del sistema bancario ombra, a sua volta la vera minaccia nucleare per la tenuta stessa del sistema.
Il tutto, nel pieno di un rallentamento dell’economia reale, di una pressione ribassista dello yuan che mette in fuga i capitali esteri e di una fase di contrazione monetaria della Banca centrale su mandato esplicito del governo. Il quale, infatti, come riportava il Financial Times, pare già passato alle vie di fatto preventive, al fine di evitare che il malcontento in aumento fra la popolazione possa tracimare, operando da dinamo sociale di una situazione economico-finanziaria già molto delicata.
Stando al quotidiano della City, studenti, operai dei cantieri edili e proprietari di casa infuriati per il crollo del prezzi sarebbero le prime vittime di una recente ondata repressiva, sostanziatasi in una draconiana tagliola sul nascere di manifestazioni di protesta e arresti di massa e arbitrari.
Attenzione alla Cina, la pentola in ebollizione comincia a far muovere e tremare il coperchio. Ed è il mondo intero a rischio di fare i conti con una pesante scottatura.