Genova (Andrea Rovere) – A tre mesi dal crollo del Ponte Morandi, sullo strascico di mille voci e polemiche, è stato approvato in questi giorni al Senato il Dl Genova.
Fra contestazioni e applausi scroscianti, e al di là della gazzarra scatenata dal pugno chiuso di Toninelli, che saluto comunista non era affatto, i giallo-verdi strappano la maggioranza anche grazie ai senatori di FdI, riuscendo a far prevalere la loro visione rispetto a quella della stragrande maggioranza delle opposizioni.
Ma entrando nel merito del decreto, e nello specifico in riferimento alla ricostruzione del ponte, quali sono le certezze?
Chi rompe paga
Pare che, alla fine, i soldi li tirerà fuori Autostrade, anche se lo stanziamento di 30 milioni all’anno fino al 2029 nel caso la società non rispettasse l’impegno o dovesse ritardare i pagamenti, lascia un tantino perplessi.
Tuttavia, quello che più colpisce è che ancora non vi sia indicazione circa il soggetto che si occuperà della ricostruzione, fatto che potrebbe significare l’esistenza di una qualche querelle fra il governo e la stessa Autostrade per l’assegnazione dell’incarico.
E qui sorgerebbero altre perplessità, poiché il punto dovrebbe essere banalmente che, se chi rompe paga, non è detto che l’assolvere ai propri doveri in termini di risarcimento debba conferire in automatico il diritto a porre rimedio ai danni provocati.
Del resto è semplice: se un ponte, la cui responsabilità di manutenzione spetta a te, crolla per cause correlate alla tua attività, mi dai i soldi e io vado a farmelo ricostruire (e gestire) da chi mi pare.
Eppure, in barba alla logica aristotelica, si è ancora qui a guardarsi intorno e a diluire un tempo che ai genovesi sembrerà già infinito.
Un viadotto “cinese”
Tant’è che il Sindaco Bucci, solo la settimana scorsa, ha pensato bene di saltare su un aereo e andarsene in Cina a conferire con alcuni colossi asiatici alla ricerca di “appoggi” per la ricostruzione del ponte.
Cosa che di per sé sarebbe anche buona, poiché giungere a soluzioni pronte ed efficaci è certo una priorità in queste circostanze. Se non fosse però che questa gita ad oriente porti a riflettere su alcuni dettagli che non possono essere ignorati.
Si legge infatti in un articolo de La Stampa datato 28 aprile 2017:
“Un fondo del governo cinese si prende un pezzo di Autostrade per l’Italia, la società che gestisce la parte più grande della rete autostradale italiana, costruita con soldi pubblici e privatizzata nel 1999”.
Questo significa che la società controllata da Atlantia, holding di proprietà della famiglia Benetton, si trova parzialmente in mani cinesi. E non è pertanto possibile escludere a priori che la volontà di interloquire con Pechino sia in qualche modo legata agli interessi di Autostrade (e dunque di Atlantia) a vedersi appaltare i lavori di ricostruzione del ponte crollato.
Mera coincidenza?
Cambiare tutto per non cambiare niente
Per ora non è dato saperlo, e va certo detto che qui ci si muova ancora sul terreno dei legittimi interrogativi.
Se però in simili circostanze è doveroso attendere di vedere cosa succederà in futuro e quali dettagli emergeranno, ecco che per quanto riguarda l’esistenza di svariati nodi da sciogliere lungo tutta la penisola c’è invece poco da dubitare.
A partire proprio dalla tragedia del Ponte Morandi in sé, indegna di uno Stato qual era e quale ancora dovrebbe (e potrebbe) essere quello italiano.
Un dato è certo: gli investimenti in infrastrutture, sia per realizzarne di nuove che per la manutenzione e l’ammodernamento di quelle già esistenti, sono di entità insufficiente ormai da lungo tempo, e i risultati li abbiamo sotto gli occhi da nord a sud.
Il cancro del calcestruzzo
Ma se facciamo un passo in più, è facile rendersi conto che ad un dato di fatto possa in parte corrispondere un dubbio da esprimersi attraverso una semplice domanda: cosa c’è alla base delle scelte costruttive di molte opere? O, in altre parole: ciò che ci viene propinato come la scelta tecnologicamente più avanzata, lo è davvero in ogni caso?
A tal proposito, incuriosisce assistere ad un così largo utilizzo del cemento armato anche per strutture che diversi esperti ritengono sarebbe più vantaggioso costruire servendosi di altro materiale.
Ed è proprio sulla scia di simili interrogativi che abbiamo contattato l’ingegnere Sergio Picchio, strutturista e progettista di ponti, il quale ci ha fornito diversi chiarimenti ed opinioni preziose.
Anzitutto, va precisato che una struttura in cemento armato possa resistere tanto 100 quanto 1000 anni, e che ciò dipenda soprattutto dai seguenti fattori: la qualità del calcestruzzo impiegato; la bontà del progetto; l’applicazione corretta delle tecniche costruttive in relazione alla specifica situazione; il tipo, l’intensità e la frequenza delle sollecitazioni a cui la struttura è sottoposta; la puntualità e l’accuratezza delle manutenzioni.
Tuttavia, un ruolo importante lo gioca anche l’eventualità di sviluppo del fenomeno della carbonatazione – che Picchio ci spiega essere volgarmente definito il “cancro del calcestruzzo” –, provocato essenzialmente dalle piogge acide e in genere da fattori di origine ambientale, e favorito dalla presenza di microfessurazioni.
Un ponte a rischio
Ora, dal momento che il calcestruzzo sottoposto a trazione tende alla formazione di microfessurazioni, e che un’adeguata verniciatura del materiale contribuisce a diminuirne la capacità di assorbimento di sostanze in grado d’incidere sul livello di acidità, risulta evidente che il Ponte Morandi fosse un ponte a rischio, e che valga la pena di domandarsi il perché di tanta leggerezza.
Ma è andando avanti nel colloquio con l’ingegnere che gli interrogativi diventano ancora più doverosi ed urgenti.
Se infatti, per quanto concerne la progettazione di viadotti, le conoscenze attuali sono maggiori rispetto a quelle di 50 anni fa, ed acquisite in buon numero su base esperienziale – oltre che dai passi avanti effettuati nel campo del calcolo strutturale –, Picchio ci conferma che ai tempi della progettazione del Ponte Morandi vi fosse già ampia consapevolezza circa una verità fondamentale: il calcestruzzo nasce per essere compresso, non sottoposto a trazione.
A questo punto la domanda è scontata: perché si è dato il via libera alla realizzazione di un simile gigante coi piedi d’argilla? Perché consentire ad un progetto irrazionale di prendere forma concreta?
L’arroganza del progettista e le coperture politiche
L’ingegnere spiega questo fatto incredibile attraverso due ipotesi: l’arroganza del progettista, evidentemente sordo alle critiche di colleghi che ai tempi avranno certo messo in guardia rispetto ad un simile azzardo, e gli eventuali appoggi politici di cui poteva forse beneficiare la ditta appaltatrice, in grado d’imporre il proprio progetto a prescindere dalla bontà dello stesso.
Ma se vari elementi ci dicono che la tragedia del Ponte Morandi poteva con tutta probabilità essere evitata, è anche bene capire se in Italia si sia pronti a trarne le dovute lezioni.
Come tiene a sottolineare l’ingegner Picchio, il futuro dell’ingegneria strutturale è pesantemente connesso alla preparazione di chi la porrà in essere, sia a livello progettuale che esecutivo. L’ampio utilizzo del calcestruzzo, soprattutto nel passato, è stato dovuto soprattutto alla maggior facilità d’impiego di questo materiale e dal fatto che richieda manodopera meno specializzata, ma ad oggi costituirebbe grave colpa ignorare i vantaggi offerti dall’acciaio per quanto concerne alcune progettazioni. Non esclusa quella di ponti.
Il futuro è dell’acciaio
Su questo, Picchio è categorico: l’acciaio garantisce una maggior rapidità esecutiva, poiché in termini di prefabbricazione si può procedere senza i problemi di peso connessi ai prefabbricati in C.A.V. (calcestruzzo vibrato) o in C.A.P. (calcestruzzo precompresso). Detta prefabbricazione, che garantisce la qualità del prodotto realizzato in officina, pone inoltre meno problemi rispetto al caso di utilizzo del calcestruzzo, poiché i prefabbricati di tale materiale non sono giuntabili: se si deve realizzare una trave di trenta metri in acciaio si può produrla in pezzi da dieci, facilmente trasportabili, mentre una trave di tale lunghezza in calcestruzzo richiede un trasporto eccezionale spesso incompatibile con le vie di accesso al cantiere.
Altri vantaggi sono poi la maggiore rapidità della messa in esercizio dell’opera, i costi di manutenzione ridotti all’osso nel caso di acciaio Cor-Ten (impiegabile per la ricostruzione del viadotto Polcevera), e il fatto che i pesi strutturali siano generalmente inferiori a quelli delle strutture in cemento armato, discrimine assai rilevante per quanto riguarda i ponti, in cui la struttura costituisce il 90% del peso dell’opera.
L’ingegnere aggiunge che l’utilizzo dell’acciaio inossidabile non deve spaventare in termini finanziari, poiché l’incidenza del costo del materiale in un’opera quale un ponte è tale che un suo eventuale aumento incide in modo non significativo sul costo globale. Per di più, se si completa il quadro economico totale accorpandovi i costi di manutenzione, questo può addirittura diminuire.
Per i ponti in acciaio occorre manodopera specializzata
E allora perché non cominciare a considerare seriamente investimenti nella formazione di manodopera specializzata, così da agevolare l’impiego dell’acciaio per tutte quelle opere il cui utilizzo sarebbe da preferire a quello di altro materiale?
Non si tratta certo di demonizzare il calcestruzzo, né tantomeno di stilare un’assurda classifica dei materiali da costruzione. Il punto si riduce semmai alla comprensione del fatto che esistano tecniche e materiali più adatti ad una situazione invece che ad un’altra, e quindi all’opportunità di operare scelte idonee valutando caso per caso.
Lo stesso ingegner Picchio ci fa notare che il calcestruzzo è un materiale che consente una gamma di soluzioni architettoniche molto ampia, e queste sono spesso diverse da quelle praticabili con l’acciaio. I due materiali non sono dunque in concorrenza fra loro, ma è il progettista a dover essere in grado di valutare correttamente la situazione e tutte le criticità ad essa relative, così da effettuare una scelta ponderata sia in senso tecnico che economico.
Poche demolizioni e rimessa in pristino
Ma per quanto riguarda la situazione di Genova nello specifico?
Anche qui, il nostro esperto sembra aver le idee chiare, e riportiamo direttamente le sue parole:
“Se si vogliono accelerare i tempi di eliminazione dei gravi disagi che stanno affliggendo Genova oggi, si dovrebbe avere la modestia di valutare questa possibilità: ricostruire il ponte crollato, con identico disegno, utilizzando acciaio inossidabile; dedicare il tempo della ricostruzione, in parallelo, a verificare in ogni modo quanto rimasto in piedi e progettare una riabilitazione strutturale seria e totale per ottenere praticamente un’opera nuova e duratura, evitando una demolizione che comporterebbe anche quella di più di cento appartamenti pieni di tubazioni in eternit, i cui tempi di rimozione e passivazione (alcuni mesi come minimo prima della demolizione dei caseggiati e poi del ponte) renderebbero decisamente irrealistiche le promesse dei politici di ricostruire il ponte in otto mesi. Ne sono già passati tre, inutilmente”.
Dice bene, l’ingegnere: tre mesi passati inutilmente.
E chissà se la modestia a cui si accennava poco sopra la si vedrà presto saltar fuori nell’applicazione di questo decreto ancora pieno di ombre, tanto più che le proposte di Sergio Picchio non aspettano altro che di essere valutate dagli organi competenti.
Nel frattempo, Genova resta in attesa.
E noi con lei, visto che, oltre ad un ponte nuovo, quello che ci si aspetta e che è giusto pretendere sono verità e trasparenza: dalla politica, da Autostrade, dagli organi di giustizia, e da chiunque sia coinvolto a qualche livello in una vicenda che non può lasciare l’Italia così com’era.
Da qui si deve ripartire, perché a restare immobili con i piedi nella palude, tutto intorno si sgretola; e il fragore di un istante terribile, quel 14 agosto, è venuto a ricordarcelo.