LA “BALLA PONTIFICIA” DELLA LETTERA DI SAN PIETRO GIUNTA DIRETTAMENTE DAL PARADISO
di Carlo Grossi
(sesta puntata)
Primo Papa a prendere contatto con i Franchi, per l’ignominiosa alleanza è stato Gregorio III, quando su quel trono sedevano gli ultimi Merovingi, i cosiddetti Rois Faitnéants, perché non si occupavano di nulla, avendo rimesso tutti i poteri in mano al Maggiordomo (da Major domus, il Maggiore della Casa) detto anche Maesto di Palazzo) che li esercitava in loro nome, tramandandosi la carica di padre in figlio, come un’eredità. In tale veste reggeva le cose del Regno un uomo forte, figlio d’arte, In quanto già suo padre, l’abile e intraprendente Pipino d’Heristal, aveva esercitato con successo tali funzioni, quel Carlo Martello al quale l’Europa, specie quella Mediterranea, deve di non essere oggi un paese islamico come il Nord Africa, perché a Poitiers ha fermato l’avanzata araba che sembrava irresistibile. Benché gli eruditi non ne parlino mai, perché uniche fonti sui fatti dell’ epoca sono quelle ecclesiastiche che dei Longobardi riferiscono solo le malefatte, vere o presunte, non le gesta meritorie, a questo evento decisivo per la storia dell’Europa cristiana ha validamente cooperato il Re dei Longobardi Liutprando che, accogliendo l’invito di Carlo, gli ha inviato un buon contingente di truppe, dal che è nato tra essi non solo un rapporto d’alleanza contro i Mussulmani, ma di cordiale amicizia personale. Senza esito, quindi sono rimasti gli approcci di Gregorio III, che gli chiedeva aiuti contro il Re dei Longobardi, come dire di muover guerra contro di lui, perché Carlo, pur ricevendone onorevolmente i Messi, non ha preso nessun impegno contro il suo amico ed alleato, esprimendosi con tale chiarezza e decisione che, dopo la sua morte, il nuovo Papa Zaccaria, anch’ esso astiosamente antilongobardo, che avrebbe desiderato l’intervento franco contro Liutprando, non ha più osato chiedergli interventi del genere. I Regni dei Franchi e dei Longobardi parevano avviati a una lunga e forse perpetua amicizia, ma qualche anno dopo Carlo Martello non c’era più, e nemmeno Liutprando la cui morte era appresa con sommo gaudio dal Papa che l’attribuiva alle preghiere con le quali l’aveva, poco cristianamente, invocata come grazia dall’ Onnipotente. Papa Zaccaria, però, passava presto a miglior vita anche lui e gli succedeva Stefano II, un romano anch’esso fanaticamente antilongobardo, ma più deciso del suo predecessore, che ha ripreso il discorso con la Corte Franca, iniziato da. Gregorio III, passando disinvoltamente dal tema religioso a quello politico. Al trono di Pavia, morto Liutprando, saliva un personaggio vivace e intelligente, ma meno saggio del suo predecessore, il Duca del Friuli Astolfo, il cui comportamento suscitava nel Papa gravi preoccupazioni, dato che era riuscito ad occupare Ravenna e la Pentapoli strappandole all’Impero, per cui Stefano temeva che la sua preda successiva fosse Roma, sulla quale non aveva, è vero, nessuna sovranità, ma della quale si riteneva titolare, come se la sua carica ecclesiastica fosse abbinata al potere sovrano. Nel frattempo un importante fatto era avvenuto in Francia, dove il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, a lui succeduto come Maestro di Palazzo, aveva, con un comodo colpo di Stato, deposto il Re Childerico III, suo legittimo Sovrano, facendosi dai soldati proclamare Re al suo posto. Stefano capiva subito che gli si presentava una splendida e irripetibile occasione politica perché, riconoscendo e incoronando l’illegittimo Re, ne avrebbe sanato l’usurpazione, ottenendo come compenso la sua discesa in Italia con la sua forte armata per la guerra contro i Longobardi. Pertanto nel 774 partiva per la Francia col suo seguito, facendo sosta a Pavia, dove era onorevolmente ricevuto da Astolfo che, intuendo il peggio, cercava di dissuaderlo dal continuare il viaggio. Stefano però era irremovibile e ripartiva arrivando a destinazione, accolto con adeguato cerimoniale da Pipino che gli ha retto la staffa della sua cavalcatura, ciò che allora significava riconoscimento di superiore autorità. L’accordo, dato il reciproco interesse, era presto concluso coi patti di Quiertzy, e quindi Stefano con solenne cerimonia incoronava Pipino Re dei Franchi, sanandone l’usurpazione perpetrata in danno del legittimo Sovrano. Ma non era tutto perché gli attribuiva anche il titolo di Patricius Romanorum, esulante dalle-sue funzioni apostoliche, perché tipicamente politico, come tale conferibile solo dall’Imperatore del quale il disinvolto Papa violava continuamente le prerogative sovrane esercitando poteri di sua stretta pertinenza. In cambio Pipino gli prometteva la guerra contro i Longobardi per conquistare le città adriatiche occupate da Astolfo, che, dopo la conquista, avrebbe consegnato, non all’Imperatore, ma a colui che rientrava a Roma esultante per il successo della sua mossa politica. Nello stesso anno 754, Pipino varcava quindi le Alpi con la sua forte armata alla quale Astolfo non avrebbe potuto resistere, per cui si rinchiudeva in Pavia, che il Re franco cingeva d’assedio con poche forze, portandosi col grosso sull’Adriatico dove, conquistate Ravenna e le altre città, le consegnava ai Missi Pontifici e, ritenendo adempiuti i suoi obblighi, toglieva l’assedio e tornava in Francia. L’esultanza di Papa Stefano si convertiva in rabbioso sconcerto perché il suo vero scopo non era tanto il recupero di Ravenna e di qualche piccola città, quanto la distruzione totale e definitiva del Regno Longobardo, per paura che Astolfo arrivasse anche a Roma che considerata uti sua benché di sovranità imperiale. Pertanto spediva subito a Pipino i suoi Missi, latori della sua indignazione, sollecitandolo a una nuova guerra contro l’odiato nemico per l’abbattimento definitivo del Regno, accompagnando la richiesta con la scellerata proposta di ripartire il territorio a metà con lui, odiosa anticipazione del Patto del 1939 tra Hitler e Stalin di spartizione della Polonia. E per vieppiù avvalorare l’ignobile proposta, escogitava un mezzo ancora peggiore, inviando a Pipino una lettera autografa (sic!) di San Pietro in persona, che asseriva essergli pervenuta direttamente dal Paradiso e iniziava appunto: “Ego, Petrus Apostolus, dilecto filio Stephano … etc.” con la quale il Santo Patrono di Roma gli ordinava di sollecitare il Re dei Franchi alla nuova impresa, con la promessa delle delizie del Paradiso per lui e per tutti i suoi soldati, non disgiunta, naturalmente, dalla minaccia delle più terribili pene dell’Inferno, in caso di disobbedienza. Non sappiamo, in verità, se Pipino ha creduto all’infantilistico e sacrilego artifizio epistolare del Vicario di Cristo, ma è logico supporre che se ne sarà certamente valso per convincere i suoi riluttanti guerrieri a riprendere le armi e passare di nuovo le Alpi per una nuova guerra, alla quale erano riluttanti perché non ne capivano nemmeno lo scopo. Ma anche questa iniziativa sfumava perché in un breve lasso di tempo i protagonisti della vicenda lasciavano questo mondo. Moriva per primo Re Astolfo per una caduta da cavallo, seguito da Papa Stefano, che ha fatto in tempo a salutare la morte con le consuete grottesche espressioni di giubilo e di ringraziamento a Dio e a San Pietro, ai quali, con le sue preghiere, l’aveva invocata come una grazia, e infine anche lo stesso Pipino chiudeva la sua giornata terrena. Al soglio papale, dopo i due insignificanti pontificati di Paolo I e Stefano III, era chiamato Adriano I, mentre sul trono di Pavia era eletto il Duca di Toscana Desiderio, destinato ad essere l’ultimo Re longobardo, mentre a quello di Francia, all’uopo diviso in due parti, occidentale e orientale, salivano rispettivamente i due figli di Pipino, Carlo e Carlomanno, il primo dei quali – il futuro Carlomagno – poi sovrano unico e infine Imperatore del Sacro Romano Impero nel rinnovato ramo occidentale, ha realizzato l’infausta opera auspicata dal Papa Stefano II e dai suoi successori di distruzione del Regno d’Italia Longobardo.
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