di Giorgio Prinzi – CIRN Roma
Anche il più vecchio reattore di Fukushima, il cui progetto originale risale al 1950, divenuto critico a fine 1970 ed entrato in servizio l’anno successivo, ha retto perfettamente ad un sisma di quella intensità, ponendosi, come previsto, in fermata di sicurezza. Purtroppo, inspiegabilmente, il sito, pur trovandosi in riva al mare di un Paese che ha internazionalizzato con la dizione tsunami il fenomeno che in italiano viene indicato come onda di maremoto, non sembra essere stato concepito per fare fronte a questa eventualità. I generatori diesel di emergenza, entrati regolarmente in funzione erogando per circa un’ora, sono stati fermati dall’onda di maremoto abbattutasi sull’edificio dove erano allocati, e sono rimasti fermi per circa due ore. In questo frangente non è stato possibile asportare il calore residuo, dell’ordine di qualche per cento della potenza termica, che ogni reattore continua a generare nell’immediato della messa in fermata, calore in grado di fare fondere il nocciolo, se non asportato con un opportuno raffreddamento. Una mia ipotesi personale è che ad essere danneggiate siano state soprattutto le barre di controllo, a punto di fusione più basso del combustile, e che quindi, venendo meno questa loro funzione, il reattore abbia ripreso a produrre in qualche modo potenza da reazione principale di fissione, che l’iniezione di una soluzione di boro, forse a causa di bolle o di altri “tappi” non è riuscita ad estinguere.
Ancora più grave ai fini dei concetti informatori della sicurezza è che dei componenti critici, come i generatori di emergenza, non fossero almeno duplicati, anzi un’unica unità serviva tre reattori. Infatti hanno avuto tutti problemi simili. Stesso rischio si sarebbe corso con un incendio nella sala diesel concomitante con una prolungata mancanza di erogazione della rete elettrica. Si tratta di gravi carenze progettuali, ma anche e soprattutto di responsabilità protrattesi nel tempo dell’autorità di controllo che non è intervenuta in merito.
L’effetto positivo degli incidenti di Brown Ferry, di Three Miles Island e, soprattutto, di quello gravissimo di Chernobyl, è stato, dopo il 1986, un cambio della filosofia progettuale, nel senso che mentre prima si riteneva impossibile, in Occidente come nell’ex Unione Sovietica, che in una centrale nucleare, soprattutto se militare come quella di Chernobyl, tutto non avesse sempre funzionato a regola d’arte e che gli addetti sarebbero sempre e comunque stati degli esseri superiori, dopo quegli eventi, dovuti a “folle” comportamento degli operatori, con un nuovo approccio progettuale si cominciò a pensare che le centrali dovessero venire costruite in modo da garantire la sicurezza indipendentemente dall’azione umana, anzi in modo da impedire gli effetti di azioni umane irrazionali e dannose, compresi atti intenzionali di sabotaggio o di terrorismo. Questo ha portato allo sviluppo di macchine dette a sicurezza passiva e/o intrinseca, in grado ad esempio di porsi in fermata e di provvedere alla rimozione del calore residuo al venire meno delle condizioni normali di esercizio, per effetto delle immutabili ed inalterabili leggi della fisica, senza alcun intervento di meccanismi attivi, quindi anche in mancanza di erogazione elettrica, vanificando qualsiasi “fantasiosa” manovra o deliberato atto di sabotaggio. Talune macchine consentono un “tempo di grazia” di 72 ore, tre giorni, senza che si corra alcun rischio se “si molla tutto e buonanotte”.
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