di Enzo Bettiza e Alexsey Druginyn (Reuters)
Con la ripubblicazione in agosto d’una serie di prime pagine rievocative della «Stampa», riferentisi al 1962, mi sono ritrovato di colpo immerso negli eventi remoti, precursori ed eccezionali di una Russia che non c’è più. Ho potuto rileggere articoli dimenticati che, cinquant’anni orsono, inviavo da Mosca a Torino con un telefono gracchiante e controllato. Mi ha scosso la memoria, in particolare, una mia cronaca del 19 agosto ’62, dedicata, dopo i clamorosi debutti di Gagarin e Titov, ad un nuovo trionfo nel cosmo conseguito dal colonnello d’aeronautica Popovic e dal pilota mezzo ciu- Evascio Nikolajev. Il titolo a due righe, in apertura di pagina, sintetizzava benissimo lo spirito duplice, entusiasta e provocatorio, del kruscevismo ruggente di quell’epoca di rotture e novità imprevedibili. «Fastosa parata a Mosca in onore degli astronauti. Duro discorso di Kruscev sul problema di Berlino». C’era qui, avrebbe detto Churchill, tutta la complessità dell’enigma racchiuso in un enigma. Quella Russia a doppia anima scrutava da un lato il cielo, esaltava i suoi grandi primati, inneggiava al libero volo nello spazio, applaudendo il progresso tecnologico dei laboratori nascosti nel più fitto mistero; dall’altro lato invece la medesima Russia fissava brutalmente la terra, col muro conficcato nel cuore della Germania, mentre gli stati maggiori già preparavano la «crisi dei missili» che di lì a poco sarebbe scoppiata a Cuba.
IL REGNO DI KRUSCEV
Se dovessimo dare oggi, dopo mezzo secolo, un giudizio retrospettivo sul tempestoso regno di Kruscev, potremmo dire con estrema essenzialità questo. Egli, se ci collochiamo nella sua ottica, aveva saputo usare meglio il bastone che la carota nei confronti dell’Occidente; messo alle strette da Kennedy, aveva accettato la resa e il ritiro da Cuba, mantenendo però intatto il potere di Mosca sulla fedele Germania dell’Est protetta dal muro.
In politica interna, invece, ha saputo usare sia pure a singhiozzo, ora volente ora nolente, la carota meglio del bastone e dell’ukaz. Mentre dal mausoleo della rivoluzione veniva cacciata la mummia di Stalin, ritornavano dai gulag fantasmi illustri e ingombranti. Sarà Kruscev in persona a elevare a fama mondiale uno zek profetico, il barbuto Aleksandr Solzenicyn, al quale concederà di dare alle stampe una mina vagante intitolata «Una giornata di Ivan Denisovic»: la primissima ammissione ufficiale, pubblicata sulla prestigiosa rivista «Novi Mir», della scandalosa esistenza dei campi di concentramento in Unione Sovietica. Quel passo, di cui Kruscev non aveva previsto le vaste conseguenze internazionali, Nobel incluso, non gli verrà mai perdonato dai conservatori neostalinisti. La cacciata del turbolento segretario dai vertici del Pcus si compirà due anni dopo, nell’ottobre 1964.
L’AMBIGUITÀ DI KRUSCEV
Eppure, bene o male, le molecole distruttive di una latente svolta reversibile erano penetrate per la prima volta, con le imprudenti iniziative krusceviane, nel protoplasma sempre più vulnerabile della superpotenza sottosviluppata. Nella multiforme personalità dell’inventivo ucraino, l’istinto di conservazione e il fascino della rigenerazione erano coesistite in maniera più o meno inconsapevole. Egli aveva contenuto in sé, disprezzandole, le stesse identiche radici staliniane dei vecchi compagni e avversari nel politburo: il sapiente idiota Suslov che gli propinava anacronistici sermoni anticapitalisti; poi lo stagnante Breznev che lo sostituirà con un mafioso colpo di mano; quindi l’agonizzante Andropov in sedia a rotelle che perseguiterà con metodi maniacali i dissidenti; infine il cadavere vivente Cernenko che, con le sue povere e informi iniziative, non combinerà nulla e apparirà come l’ultima effimera fiammata che la candela dà prima di spegnersi.
KRUSCEV: STALINISTA PENTITO E RIFORMATORE MANCATO
Però la cosa più sorprendente era che proprio Kruscev, generazionalmente vicino a Cernenko, poi stalinista pentito e riformatore mancato, pareva tuttavia covare già sotto il suo cappotto di Gogol gli uomini della rigenerazione e della metamorfosi: i Gorbaciov, gli Eltsin, i Putin. Tutto quello che lui avrebbe voluto e forse non ha potuto fare, lo farà per amore o per forza Gorbaciov, spiccando un balzo al di là del catastrofico jato della stagnazione brezneviana. Ridarà fiato con la glasnost alla libertà d’opinione che, ai tempi di Kruscev, era stato un vagito promettente e quasi subito soffocato dai cani da guardia del regime. Inoltre, realista rassegnato ma convinto, capirà immediatamente che la Russia, per salvare la metà dell’impero interno, doveva liberarsi della zavorra greve e improduttiva della sua metà esterna: Polonia, Germania Orientale, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria andavano abbandonate al più presto al loro destino.
GORBACIOV E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA
La rassegnazione di Gorbaciov Sostenuto e incoraggiato dal pregiudizio positivo che gli manifestavano media e cancellerie occidentali, darà un contenuto concreto alla «coesistenza pacifica» purgandola degli equivoci krusceviani; punterà le carte sul disarmo atomico, sulla fine della guerra fredda, sulla cooperazione con la Nato, sull’abbattimento del muro di Berlino e addirittura, come se non bastasse, sulla riunificazione delle due Germanie. Nell’ardita azione di salvataggio del salvabile, che suscitava applausi a Occidente e resistenze a Oriente, c’era però qualcosa di negativamente originario, di insito nella sua formazione comunista; fu questo il freno ideologico che gli fece perdere la partita finale quando stava per vincerla. Non era stato capace di disgiungere l’idea del comunismo, in cui era nato, dall’aspirazione alla libertà e alla democrazia alle quali anelava. Avrebbe desiderato conseguire, non si sa come, l’impossibile quadratura del cerchio: conservare, assieme alla glasnost libertaria e alla perestrojka, un comunismo buono con al seguito un partito nuovo e un Soviet Supremo parlamentarizzato.
L’ANNUNCIO DI ELTSIN
Sarà Eltsin a tagliare il nodo gordiano. Forse solo un siberiano di tal fatta, già abnorme nel fisico, coraggioso, sprezzante del pericolo, amante delle donne e della vodka, era l’uomo designato dalla sorte a ribaltare il tavolo e interrompere lo stallo gorbacioviano. Spetterà a lui, ex segretario del partito a Mosca, annunciare ai russi dalla torretta di un carro armato che «il comunismo è finito». Privo di freni psico-ideologici, deciso a farla finita col passato, deciso ad ammainare la bandiera rossa, più che mai deciso a cancellare l’Unione Sovietica per restituire alla Russia il suo nome antico, Eltsin attraverserà come una dirompente meteora dieci anni di cronache sempre più sconvolgenti. Lo circonderà, al crepuscolo, una corte di oligarchi corrotti, di portaborse servili, di famigli avidi, fino al giorno in cui uno dei più inauditi crolli economici del secolo metterà al suolo la nuova Russia pseudocapitalista.
L’ASCESA DELL’EX AGENTE DEL KGB
L’era proteiforme di Vladimir Putin inizia, come la quiete dopo la tempesta, al principio del Duemila. Lo sconosciuto, scoperto da Eltsin, appare più simile a un curatore di fallimenti col registro in mano, che a un uomo di governo all’altezza del compito. Statura media, pallore nordico, occhi azzurri gelidi, pochi capelli biondi sul cranio rotondo. La sua insaziabile ambizione è inversamente proporzionale alle maniere asciutte con cui tende a nasconderla. Incredibilmente, dopo essere stato due volte capo del governo, diventa per la terza volta Presidente della Repubblica.
I russi si accorgeranno in seguito che l’uomo pallido è un maestro di arti marziali, un tiratore scelto, un cacciatore di selvaggina pesante, uno che nella lotta per il potere, come nelle lotte in palestra, non perdona, colpisce a fondo e non lascia per così dire traccia del colpo. Lo vedranno sbarazzarsi degli oligarchi eltsiniani del petrolio e dei media per sostituirli con oligarchi, editori, ministri, deputati, esponenti di partito e agenti segreti a lui assolutamente fedeli. Non stupiranno più di tanto quando si convertirà all’ortodossia e andrà nei giorni sacri ad accendere puntualmente un cero in chiesa. Diventerà perfino, all’insegna della Grande Russia, estimatore e ospite di riguardo di Solzenicyn negli ultimi giorni di vita del celebre descrittore dei gulag e delle malefatte di Stalin.
IL RITORNO ALLA RELIGIONE DI STATO
Putin in realtà si è servito della religione per impressionare la massa dei credenti, e della democrazia per snaturarla in una «democratura» flessibile di cui lui, dietro le quinte, è il vero organizzatore e fruitore. Non trascura niente e nessuno per mantenere e rafforzare ciò che ha conquistato. Si è dato per braccio destro un affabile dipendente come Medvedev, il quale, designato dal protettore, ha già svolto un mandato di capo di Stato posticcio, ritornando adesso al suo posto minore di capo del governo. Possiede inoltre nella Duma un suo personale partito maggioritario, ma giostra tuttavia, a carte semiscoperte, con gli altri partiti cercando di conquistarne l’appoggio o di metterli nell’angolo. L’assassinio di giornalisti critici come la Politkovskaja, poi l’impiego, da parte di ignoti, del polonio radioattivo contro esuli antiputiniani residenti a Londra, aveva suscitato in Inghilterra e altrove forti clamori e insidiose allusioni sui mandanti; in Russia, al confronto, quasi niente. Il tasso di popolarità di Putin, seppure oggi in relativo ribasso, resta sicuramente alto dall’epoca ormai chiusa delle guerre cecene e della spietata repressione dei terroristi islamici a Mosca e in altre località russe.
PUTIN: CONSERVATORE E FALSO RIFORMATORE
Cosacco e stalinista Certo, il numero degli scontenti, dei polemisti, dei giornalisti loquaci, dei divi insolenti del web, è in aumento. Questi dissidenti, se vogliamo definirli tali, scorgono nel terzo Putin un miscuglio di componenti contrastanti: uno zar mezzo bianco e mezzo rosso, autentico conservatore e falso riformatore, spadaccino cosacco una volta, fuciliere bolscevico un’altra, krusceviano un giorno, gorbacioviano il giorno dopo, estimatore dello Stalin della «guerra patriottica» e devoto dei vescovi ortodossi che nel ’41 benedicevano le baionette dei soldati al fronte. Dicono, ripetendo lo slogan anarchico, che «sarà il ridicolo a seppellirlo».
LE PUSSY RIOT
Ed è proprio sul ridicolo, infatti, che è scoppiato lo scandalo delle Pussy Riot (due anni di galera
la condanna per le Pussy Riot, band rock «colpevole» di avere inscenato uno «show» anti Putin in una chiesa di Mosca) che sta attizzando la Russia pro e contro e facendo il giro del mondo. Non varrebbe la pena soffermarsi su questo fatto increscioso, se non denunciasse il decadimento e il pervertimento di una storia tragica in una pochade da bassofondo parigino. I contestatori e dissidenti nelle Russie di Lenin, di Stalin, di Kruscev, di Breznev, non calpestavano cattedrali e non sbraitavano come cantori da cabaret. Si chiamavano Martov, Plechanov, Trockij, Bucharin, Solzenicyn, Sacharov, Šalamov, Sinjavskij. Non venivano condannati a due anni di carcere, ma brutalmente esiliati, uccisi o spediti nel gulag dove era più facile morire che vivere. Con questo non voglio deridere le tre giovani postmoderne che hanno fiutato nella Russia attuale, la Russia di Putin, un Paese più idoneo alla commedia che alla tragedia. Vorrei soltanto avvertire gli ingenui che quando la Storia maldestramente si ripete, come diceva Marx, essa si trasforma in farsa. Spero che la pena inflitta alle tre Pussy Riot venga prima o poi ridotta; il rischio minore che corrono è di essere considerate tigrotte di cartapesta. Ma il rischio maggiore che invece corre Putin, con le sue giravolte, è di diventare lui uno zar da farsa.
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