di Marcello Veneziani – Mario Draghi non è un leader, non è un premier, non è uno statista, ma un alto commissario, se non un alto funzionario, o per dirla alla russa, un oligarca della nomenklatura euro-atlantica. Non ha visione politica, non ha lo sguardo rivolto al futuro del paese ma è un esecutore di una linea transeuropea. Ora possiamo davvero dirlo, con gran dispiacere e cognizione di causa.
Quando Draghi fu invocato per interrompere l’esperienza disastrosa del governo grillino-pidino di Giuseppe Conte, sapevamo bene chi fosse e da dove provenisse. Era un grand commis eurocratico, di alto profilo, che era stato protagonista di molte pagine d’economia e finanza, privatizzazioni e politica bancaria. Autorevole, sobrio nel linguaggio, elegante nelle comunicazioni, riconosciuto e stimato nelle alte cancellerie europee e occidentali. Perciò lo preferimmo senza dubbio all’imbarazzante premiership di Conte, tra inconsistenza e presunzione, e all’alleanza politica che lo reggeva.
Draghi era un ritorno alla serietà e alla credibilità internazionale, anche in vista del recovery e dei soldi che sarebbero piovuti in Italia. Un governo così largo generava imbarazzi consociativi, ma perlomeno riequilibrava l’assetto precedente, rimetteva in carreggiata le istituzioni. Arrivammo poi a sostenere Draghi al Quirinale, sperando che ripetesse – da economista – l’esperienza dignitosa di Carlo Azeglio Ciampi; temendo che ci propinassero ancora un presidente targato Pd, come poi è stato, col concorso di due terzi del centro-destra.
Certo, mandare Draghi al Quirinale significava rischiare di far cadere il governo e lo spettro delle urne spaventava la grande maggioranza del Parlamento. Ma era anche il modo per circoscrivere Draghi in un ruolo alto ma meno direttamente attivo sulla scena politica. Perché nel suo anno di governo ci siamo accorti di una cosa: Draghi non ha voluto gestire l’emergenza pandemia, ha lasciato che fosse ancora la linea Speranza-Pd a farlo, limitandosi a occuparsi dei temi a lui più congeniali; e non ha assunto un ruolo super partes sulla politica, al più è stato extra partes. Non è stato cioè il capo di un governo ma il garante dell’Europa e un suo emissario. O se preferite una formulazione più lusinghiera ma che non cambia la sostanza del suo ruolo, è stato l’alto commissario europeo alla colonia Italia.
La prova più evidente di questo suo ruolo esecutivo e non politico, la sta dando ora con la crisi Ucraina: ha appiattito il governo italiano, la sua linea tradizionalmente più articolata, sulle posizioni della Nato e del partito dei falchi dem, statunitensi e italiani. La sua mission è al fianco degli Stati Uniti e del progetto euro-atlantico ad oltranza. Non curandosi dei forti rischi di sostenere ancora l’entrata dell’Ucraina nell’Europa e nella Nato, rispetto a cui sono diventati prudenti gli altri capi di governo europeo e lo stesso Zelenskij, Draghi continua a sfoderare la sua ricetta bellicosa: armi e perfino soldati a fianco della causa ucraina, e dunque guerra più che negoziato con la Russia, al fine di far cadere Putin. E magari poi processarlo come pazzo criminale di guerra. Una linea di fuoco che fa saltare i delicati equilibri mondiali, spinge all’arma estrema la Russia putiniana e mina la possibilità di fruttuosi negoziati. Solo la scarsa rilevanza dell’Italia sullo scacchiere mondiale ci potrà salvare dalla deriva bellicosa. Ma già ci sono piovute dichiarazioni di inimicizia da parte della Russia che non ci sono state, almeno di pari forza, con la Francia, la Germania o altri paesi europei.
L’Italia è sempre stata, anche per la sua posizione geopolitica, un paese di mediazioni, non siamo mai stati i falchi dell’Alleanza Atlantica e della Nato, e negli anni abbiamo conosciuto politiche estere magari ambigue o bizantine, ma non così schiacciate sull’Alleato Americano e sulle posizioni della Nato: la politica di Moro, di Andreotti, di Craxi ne è stata la prova. Non eravamo nazione sovrana ma perlomeno la nostra subalternità la compensavamo con una relativa autonomia e una nostra strategia.
Ma quando i governi si chiamano governance, i popoli contano meno dei parametri, e la Cupola dei poteri diventa l’unico vero referente dei commissari eurocratici, la musica cambia. E Draghi ne è oggi il più deciso interprete ed esecutore.
Per dirla in termini di pagella scolastica, Draghi ha buoni voti in economia e finanza, e in relazioni internazionali, ed anche in stile ed educazione; ma ha forti insufficienze in politica estera, in politica sociale, in politica sanitaria, e in politica in senso generale. L’esperienza di Draghi mostra ancor più a rovescio, che la politica non può essere surrogata dalla tecnocrazia, è ancora necessaria per guidare i paesi con una visione generale della realtà. Certo, il vuoto e la miseria della politica odierna ha determinato che la leadership sia passata ai tecnici, ai commissari, agli esperti senza investitura popolare e senza storia politica alle spalle. Ma il fatto che anche un accreditato, autorevole funzionario europeo dimostri la sua inattitudine al governo di fronte ai grandi temi della storia in corso, e la sua inettitudine a proporsi come espressione d’una nazione e non solo d’un notabilato tecno-eurocratico, conferma l’urgenza di tornare a governi politici. Poi se fate la domanda successiva, su chi e come, casca l’asino, o cascano le braccia. Ma intanto è già un primo passo riconoscere che i tecnici non sono all’altezza di guidare un Paese quando avvengono svolte o catastrofi come la pandemia o la guerra. Draghi è a suo agio nei caveau delle banche, non nei meandri della storia e della politica.