Roma (Emanuele Calò) – I ragazzi (ma anche gli ultracentenari) che invadono le strade chiedendo sia la pace che la guerra, senza sceverare l’una dall’altra, appartengono di pieno diritto all’ambito letterario del realismo magico e al suo zoccolo duro, riconoscibili per gli ardimentosi salti logici. In termini meno sgarbati, Robert Alter (Magic Realism in the Israeli Novel, Prooftexts, vol. 16, no. 2, 1996, p. 158) ravvisa nel realismo magico la modifica tacita del contratto implicito fra autore e lettore, laddove la libertà insita nella finzione varca i limiti imposti nell’umana esistenza. Il paradosso, che ne sarebbe alla base, non può allontanarsi di molto dall’allucinazione, che realisticamente (e magicamente) è l’ingrata materia che ribolle nei nostri inferni.
I cortei spezzano la città in due, invocando la fine della guerra, e quando dicono “guerra”, implicano quelle in cui siano coinvolti gli ebrei, perché se sono il popolo eletto, può soltanto concepirsi che combattano un conflitto armato in cui nessuno si faccia del male. Chi non vorrebbe la pace? Non vi è nulla di originale nell’invocarla ma, per converso, vi è tutto di originale nel credere che le bande di terroristi e tagliagole, di tiranni e di sadici, che scatenano i conflitti, ascoltando le urla traboccanti d’indignazione che si levano dai diversi cortei, inizino a tremare e, con un filo di voce, ordinino ai loro generali di far disperdere le truppe. Ho pure appreso che vi è la proposta di un ministero per la Pace; immagino che abbiano anche pensato di immettervi gli uscieri della pace e gli autisti della pace. Pace all’anima nostra.
Se si volesse la pace per davvero, bisognerebbe manifestare affinché l’Unifil (United Nations Interim Force In Lebanon) possa assolvere ai suoi compiti, disarmando Hezbollah, e così, come in un magico domino, cadrebbero anche le due tessere denominate Hamas e ayatollah iraniani. Ma che gusto ci sarebbe nel far finire la guerra? Non ci sarebbero morti, gli ebrei sorriderebbero, facendo scattare altri incubi ancor più ferali. Come i tunnel di Gaza, così profondi, così lunghi e possenti, sono la manifestazione à la Escher dell’inconscio, le varie manifestazioni improntate al boicottaggio, all’indignazione, al negazionismo, confermano quanto insegnava William James: non piangiamo perché siamo tristi, ma siamo tristi perché piangiamo, per cui non manifestiamo perché siamo indignati, ma siamo indignati perché manifestiamo.
Il contenuto conta? Hamas ed Hezbollah hanno in comune il fanatismo religioso, ed è stimolante vedere come dei giovani atei si convertano (è questo il vero realismo magico) in altrettanti Che Guevara baciapile, perché il furore religioso viene scambiato per un’ondata rivoluzionaria. Guevara aveva tanti peccati sulla coscienza, ma non l’antisemitismo.
Mesi addietro, partecipai al tavolo della pace di un famoso ente di ricerca, ma non ho ascoltato alcun intervento sui passi necessari per addivenire alla pace. Al loro posto, efficaci spiegazioni sulle colpe di Israele: è peregrino chiedersi se la ricerca della pace coincida con la faticosa compilazione dell’elenco delle nefandezze israeliane? Qualcosa mancava, segnatamente, ed era l’elenco dei meriti irenisti di Hamas ed Hezbollah. Poiché tale ente dovrebbe essere il cuore pulsante della scienza e della ricerca, qui la buona fede non è un merito ma un’aggravante. Così come non è un merito non conoscere Karl Popper, oppure conoscerlo senza averlo capito.
Come già accennato, nei riguardi delle manifestazioni di massa, l’antropologo e sociologo francese Gustave Le Bon (Psicologia delle folle, 1895) spiegava che “la folla, non avendo nessun dubbio su ciò che per lei è verità o errore, e avendo d’altra parte la nozione chiara della propria forza, è autoritaria quanto intollerante. L’individuo può accettare la contraddizione e la discussione, ma la folla non le ammette mai. Nelle riunioni pubbliche, la più piccola contraddizione da parte di un oratore è accolta con urli di collera e violenti invettive, seguiti ben presto da vie di fatto e dall’espulsione se l’oratore insiste un poco”.
Le Bon soggiungeva che “in tutto ciò che è materia di sentimento: religione, politica, morale, affezioni, antipatie, ecc., gli uomini più eminenti non superano che assai raramente il livello degli individui comuni. Tra un celebre matematico e il suo calzolaio può esistere un abisso sotto il rapporto intellettuale, ma dal punto di vista del carattere e delle credenze la differenza è spesso nulla o lievissima”. Carlo Ginzburg (Il formaggio e i vermi, 1976) scrive che “sulla traccia di preziose indicazioni di Bachtin, siamo posti drammaticamente davanti alla dicotomia fra cultura dotta e cultura popolare e in pari tempo alla testimonianza non meno sorprendente della circolarità fra queste due culture, fino a un loro reciproco influenzarsi”. Forse fra Ginzburg e Le Bon, fra Le Bon e Ginzburg, vi è più che un trait d’union.
Paul Johnson, in un saggio apparso nel 1998 su Commentary, offre un’analisi alquanto completa dell’antisemitismo, che qualifica come “malattia mentale, diversamente da altre forme di razzismo e xenofobia” ma se le vittime designate sono soltanto gli ebrei, resta pur vero che soffrire di una patologia non è una bella condizione nemmeno per chi ne fosse affetto, e le sfilate, i cortei e le marce, possono condurre verso tanti lidi, però non necessariamente verso la guarigione.
Ora, fra il Libano e Israele, sembra aprirsi qualche spiraglio distensivo, sul cui esito sarebbe imprudente sbilanciarsi. Possiamo invece sbilanciarci senza dubbi di sorta su cosa abbia spinto i terroristi ad allentare la pressione: le marce per la pace.