Torino (Piero Abrate di Piemonte Nws) – Il 21 agosto nasce uno dei più importanti scrittori italiani del Novecento. Il suo nome è Emilio, per l’esattezza Emilio Carlo Giuseppe Maria. Il suo cognome, Salgàri, con l’accento rigorosamente sulla seconda sillaba. Un autore conosciuto in tutto il mondo, anche perché non c’è adulto che quand’era bambino non abbia avuto tra le mani un suo libro. Inventore di personaggi entrati nell’immaginario collettivo come il Corsaro Nero, Tremal-Naik e Sandokan. O della piratessa Jolanda che, a differenza dei suoi eroi, vive le giornate cupe e ripetitive di chi non riesce a sbarcare il lunario e in nessun modo ottiene i successi tanto rincorsi. Emilio Salgàri nasce a Verona nel 1862 e nel Veneto cresce, studia e mette assieme le sue prime storie avventurose. Ma è in Piemonte, prima ad Ivrea, quindi a Cuorgnè e infine a Torino, che scrive i romanzi che lo renderanno famoso.
La sua è una famiglia di modesti commercianti che nel 1878 lo iscrive al Regio Istituto Tecnico e Nautico “P. Sarpi” di Venezia. Ma Emilio non riesce a prendere la licenza e così va in fumo il suo sogno di diventare un ufficiale di marina. La sua esperienza come “uomo di mare” si riduce ad alcuni spostamenti di addestramento a bordo di una nave scuola e successivamente un viaggio (probabilmente in qualità di passeggero) sul mercantile “Italia Una”, che per tre mesi naviga su e giù per l’Adriatico, toccando la costa dalmata e spingendosi fino al porto di Brindisi.
Nel 1883 inizia a collaborare con il giornale “La Nuova Arena”, della sua città Verona, sulle cui pagine appare a puntate il suo primo romanzo, Tay-See, stampato successivamente (dopo aver subito varie modifiche alla trama) con il titolo La Rosa del Dong-Giang; nell’ottobre dello stesso anno escono le prime puntate di La Tigre della Malesia. Inizia così la sua fortunata e tormentata carriera di scrittore che annovera al suo attivo circa ottanta romanzi e un numero imprecisato di avventure e racconti.
Nel 1887 muore la madre, mentre nel novembre di due anni dopo il padre si toglie la vita, credendosi afflitto da un male incurabile. Nel 1892, Emilio sposa Ida Peruzzi, un’attrice di teatro; dopo la nascita della figlia primogenita Fatima, i Salgàri decidono di trasferirsi in Piemonte, dove Emilio ha trovato un contratto con l’editore Speirani. Si stabiliscono inizialmente a Ivrea, poi in una casa di piazza Pinelli a Cuorgnè e successivamente nella vicina Alpette. In questo periodo, nascono altri tre figli: Nadir, Romero ed Omar. Verso la fine del 1897, l’editore Anton Donath, con cui ha iniziato a collaborare, lo convince a trasferirsi a Genova e la famiglia si sistemò a Casa Rebora, nel quartiere di Sampierdarena. Durante il soggiorno ligure scrive Il Corsaro Nero, pubblicato nel 1898 e considerato il suo capolavoro.
Salgàri descrive vividamente luoghi lussureggianti che pure non ha mai visto, racconta i profumi e i colori della giungla, il ponte ruvido delle navi che si scagliano l’una contro l’altra in battaglia. Gli stessi vezzi di forma, così evidenti al pubblico contemporaneo, non sono un ostacolo per dei lettori abituati a tutt’altro linguaggio.
Nel 1900, richiamato dall’editore Speirani, Salgari si trasferisce, con moglie e figli, definitivamente a Torino, in corso Casale, prima al civico 298 e poi al 205. Da qui può facilmente raggiungere in tram la biblioteca civica centrale, dove trova mappe e racconti di viaggi esotici che costituivano la base e lo spunto per le sue storie. Tra il 1892 e il 1898 pubblica circa una trentina di opere. Nel solo triennio 1894-1896, sempre con Speirani, dà vita a ben cinque titoli: Il tesoro del presidente del Paraguay, Le novelle marinaresche di Mastro Catrame, Il re della montagna, Attraverso l’Atlantico in pallone e I naufragatori dell’Oregon. Il motivo di tutto questo lavoro sono i debiti che lo scrittore continua ad accumulare
Il 3 aprile 1897, su proposta della regina d’Italia Margherita di Savoia, viene insignito dalla Real Casa del titolo di “Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia”. Ciononostante, la sua situazione economica non migliora; a partire dal 1903 – quando la moglie inizia a dare segni di follia – si moltiplicano i debiti per poter pagare le cure. Nel 1910, la salute mentale della donna peggiora ulteriormente ed è costretta ad entrare in manicomio. Il collasso nervoso e il ricovero della moglie sono il colpo di grazia per un uomo stremato. Scrive tre lettere, ai figli, agli editori, ai direttori dei giornali torinesi e si toglie la vita il 25 aprile 1911. Nella missiva scritta ai figli avverte dove avrebbero potuto trovare il suo cadavere, in pratica in uno dei “burroncelli” del bosco di Val San Martino, sopra la chiesetta della Madonna del Pilone, la zona collinare che sovrasta corso Casale di Torino, dove con la famiglia andava solitamente a fare i pic-nic. La zona esatta è quella del parco di Villa Rey, nei pressi dell’omonimo ex campeggio cittadino. Ma a trovarlo morto non sono i figli, bensì Luigia Quirico, una lavandaia ventiseienne che è andata nel bosco per fare legna. Il corpo di Salgàri presenta la gola e il ventre squarciati in modo atroce. In mano stringe ancora il rasoio. Si uccide come avrebbe potuto uccidersi uno dei suoi personaggi, in una sorta di seppuku, con gli occhi rivolti al sole che si leva. I suoi funerali avvengono al Parco del Valentino, ma passano inosservati perché in quei giorni Torino è impegnata a inaugurare l’imminente festa del 50° Anniversario dell’Unità d’Italia e dell’Expo Universale.
Il successo dei suoi romanzi prosegue decennio dopo decennio e la sua opera tuttavia rimane viva a nutrire con tutto il suo fascino la fantasia di generazioni di ragazzi e non. Un indice che in un certo modo ci dà la misura della popolarità degli eroi salgariani è provata oggi dalla grande diffusione di falsi o apocrifi, più di un centinaio, che editori privi di scrupoli gli hanno nel tempo attribuito; alcune di queste opere sono state addirittura messe in giro dai figli dello stesso Salgari. In famiglia, purtroppo, le tragedie continueranno anche negli anni a venire: ancora nel 1931 sarà il suicidio la causa della morte di Romero, uno dei suoi quattro figli; infine anche Omar, il più piccolo, si butterà nel 1963 dal secondo piano del suo alloggio.