di Giovanni Sabbatucci – Il 25 aprile è la data scelta dall’Italia repubblicana per celebrare la fine dell’occupazione nazifascista e la riconquista delle libertà politiche e civili. Naturale che a festeggiare la ricorrenza siano in primo luogo le associazioni partigiane, seppur ormai trasformate, col passare degli anni, in associazioni politico-culturali. Meno naturale che i dirigenti dell’Anpi ritengano doveroso invitare alle celebrazioni nazionali militanti della resistenza palestinese. Succede ormai da qualche anno: e ogni volta i cortei organizzati per festeggiare la liberazione dal nazismo sono diventati occasione per violente contestazioni rivolte contro le rappresentanze delle comunità israelitiche, in particolare contro i pochi superstiti della Brigata ebraica che combatterono sul fronte italiano dopo essere sfuggiti avventurosamente alla morte nei lager. Ognuno è libero di scegliere la resistenza che preferisce, o di esaltare i movimenti di liberazione nazionale nati dalle lotte contro il colonialismo, senza troppo badare alle loro credenziali democratiche. Ma associare i combattenti palestinesi alle celebrazioni ufficiali per la sconfitta del nazifascismo significa commettere un clamoroso errore storico oltre che un atto politicamente inopportuno.
È noto, infatti che negli Anni 30 del Novecento, nella sua (legittima) lotta per l’indipendenza, il nazionalismo arabo cercò e ottenne sostegno nell’Italia fascista. E che il gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini, una delle più alte autorità dell’Islam sunnita, fu alleato e amico di Hitler (insieme nella foto d’antan) e lo incoraggiò, per quanto era in suo potere, a perseguire sino in fondo il programma di sterminio del popolo ebraico. Non si vede allora che senso abbia invitare gli eredi del nazionalismo arabo a celebrare insieme la sconfitta del nazifascismo, che fu in fondo anche la loro sconfitta.