di Andrea Muratore – L’Unione Sovietica di Stalin è stata, nella seconda guerra mondiale, la nazione grazie alla cui avanzata si sono potuti scoprire i peggiori orrori associabili al regime nazista, primi fra tutti i campi di sterminio liberati dall’Armata Rossa tra il 1944 e il 1945 nella sua avanzata verso Occidente. Avendo, inoltre, subito più perdite di ogni altro Paese per la guerra e per le politiche di pulizia etnica e di sterminio condotte dai tedeschi, prima fra tutti la “Soluzione Finale” della questione ebraica, l’Urss staliniana volle porre nell’immediato dopoguerra la questione del superamento dell’oppressione di popoli come gli ebrei in cima all’agenda politica. Stalin contribuì in maniera decisiva alla nascita di Israele nel 1948, i suoi alleati (Cecoslovacchia in testa) armarono Tel Aviv fino ai denti, il blocco comunista lo sostenne in sede Onu. Ma negli ultimi anni del regime il graduale avvicinamento di Tel Aviv all’Occidente, unitamente all’apertura di frange sotterranee e di settori del potere sovietico a una distensione della Guerra Fredda in vista della successione a Stalin portò gli ebrei nel mirino della dittatura bolscevica come potenziale “popolo ostile”. La morte di Stalin interruppe, in tal senso, quella che fu l’ultima purga del trentennio del suo dominio sullo Stato comunista: la repressione del presunto complotto dei medici ebrei. Una delle pagine meno conosciute della storia dell’Urss.
L’ultima campagna di terrore e le sue origini
Il 13 gennaio 1953 Stalin parlò alla popolazione sovietica e le annunciò l’esistenza del “complotto dei medici”: secondo le accuse del dittatore sovietico, nove medici che curavano personalmente gli inquilini del Cremlino e il loro entourage, di cui sei ebrei, avevano assassinato tra il 1945 e il 1948 alcuni stretti collaboratori di Stalin e si preparavano a uccidere i maggiori dirigenti politici e militari dell’Urss, secondo gli ordini ricevuti “dagli imperialisti occidentali e dai sionisti”. Così facendo l’anziano dittatore voleva rendere esplicito un clima di tensione e terrore per alzare l’escalation di una repressione già avviata da alcuni anni con attacchi mirati a esponenti dell’apparato, molti dei quali ebrei.
Va sottolineato un fatto importante: gli ebrei nella rivoluzione bolscevica e nell’edificazione dell’Urss erano stati a lungo protagonisti. Fortemente repressi dall’impero zarista, ben inseriti nelle città nei club culturali e politici, i membri dell’élite ebraica di aree come Mosca e San Pietroburgo avevano contribuito sia al progetto di Lenin che all’edificazione del regime di Stalin. Ebreo era Lazar Kaganovic ed ebree erano le consorti di due suoi colleghi nel Politburo del Partito Comunista, Vjaceslav Molotov e Kliment Vorosilov, così come l’ex rivale di Stalin, Lev Trotskij, comandante dell’Armata Rossa durante la guerra civile. Tutti gli ebrei dell’Europa orientale avevano poi visto i sovietici come liberatori proprio perché la scelta dei nazisti era stata il loro sterminio. Gli ebrei avevano combattuto nell’Armata Rossa contro i tedeschi ricevendo in proporzione alla popolazione un numero di onorificenze maggiore di ogni altro gruppo etnico.
Tuttavia, già pochi mesi dopo la nascita di Israele, nel maggio 1948, il regime staliniano iniziò a vedere gli ebrei come “quinte colonne” ostili. “Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949” – scrive Timothy Snyder in Terre di sangue – “la vita pubblica in Unione Sovietica virò verso l’antisemitismo” anche remando contro la genuina simpatia della popolazione di molte aree del Paese per uomini e donne che avevano sofferto privazioni ancora più gravi delle loro durante l’invasione e l’occupazione nazista di parte del Paese. “Stalin aveva deciso che gli ebrei stavano influenzando lo Stato sovietico più di quanto i sovietici stessero facendo con quello ebraico” e nel quadro generale reso teso dal blocco di Berlino Ovest da parte dell’Urss, dal consolidamento dei due blocchi su scala globale, dalla minaccia di una nuova guerra mondiale, dalla corsa sovietica verso la parità atomica il regime pensò a una nuova purga per compattare il fronte interno come fatto con il Grande Terrore del 1937-1938.
L’architetto dell’antisemitismo di Stalin
In quest’ottica, gli ebrei sovietici divennero un bersaglio naturale. Questo per un triplice ordine di motivi. In primo luogo, la Grande Guerra Patriottica contro la Germania aveva risvegliato nell’Urss il nazionalismo panrusso come collante dello sforzo bellico e l’idea della primazia dell’etnia russa nel quadro politico dell’Unione, facendo rifiorire le pulsioni più ataviche tra cui la diffidenza verso gli ebrei. In secondo luogo, si ricominciò a perseguitare ogni tipo di nazionalismo potesse essere ritenuto in qualche modo ostile, e in quest’ottica, nota Osservatorio Russia, “le accuse rivolte agli intellettuali ebrei di scarsa adesione agli interessi della patria socialista, dedicandosi alla difesa del particolarismo identitario e l’accusa di apoliticismo e di essere estranei alla causa dell’internazionalismo proletario, furono tra i vettori che rimodellarono l’atteggiamento del Cremlino verso gli ebrei”. In terzo luogo, nonostante proprio gli ideali egualitari e emancipatori della rivoluzione fossero stati tra i moventi dell’avvicinamento di molti ebrei alla causa bolscevica, nel secondo dopoguerra la natura cosmopolita e fluida della cultura ebraica, capace di adattarsi a contesti diversi, fu tra i motivi che giustificò il sospetto del regime di Stalin proprio a causa del suo presunto percorso di convergenza con l’individualismo borghese di stampa occidentale. Gli ebrei, dunque, erano visti di traverso in quanto presunti nazionalisti sostenitori di una potenza straniera che l’Urss aveva per prima riconosciuto e da cui poi si era allontanata, Israele, ma anche perché ritenuti apolidi e internazionalisti. Due tesi che sarebbe stato spericolato portare alla convergenza, ma che nel paranoico clima dell’Urss postbellica trovarono un cantore in Andrej Zdanov (1896-1948). Zdanov fu fedelissimo braccio destro di Stalin, responsabile della politica culturale e della propaganda, un Goebbels rosso dalla profondissima capacità di comunicazione. Nel 1946 coniò la sua celebre dottrina in cui il mondo veniva diviso in due campi: quello “imperialista”, guidato dagli Stati Uniti, e quello “democratico”, guidato dall’Urss, i cui avversari venivano dichiarati esplicitamente rivali della causa nazionale, dunque traditori. Prese il via la cosiddetta Zdanovscina, il regno del terrore culturale contro l’intellighenzia. Per due anni, dal 1946 al 1948 (e cioè fino alla sua morte) Zdanov divenne l’occhio di Stalin su medicina, letteratura, filosofia, linguistica (della quale il dittatore era fanaticamente appassionato), economia. La cultura ebraica ne fu pesantemente penalizzata, e si preparò l’identificazione tra l’ebreo, il borghese e l’Occidente, dunque il mondo imperialista. Ironia della sorte, una chiave di lettura non dissimile, nella semplicità della relazione causa-effetto, da quella nazionalsocialista.
Fino al 1952, nota Luis Rapport nel saggio La guerra di Stalin contro gli ebrei, “gli ebrei vennero estromessi ed eliminati dalle file del Partito e dai gangli vitali della società sovietica” nel silenzio e inesorabilmente: “nella nuova edizione della grande enciclopedia sovietica, pubblicata nel 1952, la voce “Ebrei” passò dalle 54 pagine dell’edizione precedente – suddivise per storia cultura e religione – a due pagine. In quelle due pagine, colpisce la frase: “Gli ebrei non costituiscono una nazione”. I vertici dell’Esercito vennero ripuliti di 63 generali e 260 colonnelli ebrei, estromessi o eliminati tra il 1948 e il 1953”, mentre uomini celebri dell’intellighenzia ebraica come il direttore del Teatro yiddish di Mosca Solomon Mikhoels, furono fatti assassinare per essersi opposti al nuovo clima.
La morte improvvisa di Zdanov, nel 1948, segnò una nuova fase della repressione. E sarebbe stato il viatico per il lancio dell’ultima, grande purga immaginata dal dittatore sovietico. Una purga che solo la sua morte e l’eliminazione successiva del suo “boia”, Lavrentij Berija, avrebbe impedito di portare a compimento.
Il complotto dei medici
Già dal 1949 iniziarono gli arresti di importanti personalità ebraiche, mentre il 27 novembre del 1951 finirono in carcere per opera dei proxy sovietici di Praga i politici ebrei Rudolf Slànsky, segretario generale del partito comunista cecoslovacco, e il suo vice Bedrich Geminder, che sarebbero stati processati e giustiziati un anno dopo, ironia della sorte proprio leader del Paese che su ordine dell’Urss aveva rifornito di armi Israele nel 1948. Nel maggio 1952 in Unione Sovietica furono invece processate quindici persone collegate al disciolto Comitato Ebraico Antifascista che proprio in Mikhoels aveva avuto il suo presidente. Essi erano ritenuti colpevoli di aver chiesto otto anni prima a Stalin, di istituire in Crimea una Repubblica ebrea in vece del remoto territorio assegnato agli Ebrei in Estremo Oriente. Il processo si sarebbe concluso concluso a luglio con la condanna a morte di 13 imputati. Nel novembre dello stesso anno la stampa ucraina annunciava come a Kiev molti ebrei fossero stati fucilati per “ostruzionismo controrivoluzionario”. Il romanziere Il’ja Erenburg, il violinista David Ojstrach, lo scrittore Vasilij Grossman furono emarginati dalla vita pubblica del Paese in quanto ebrei. Tutto era maturo perché la campagna informale assumesse strutturazione: la caccia agli ebrei, nell’intenzione di Stalin, avrebbe dovuto sostanziarsi nell’azzeramento della loro intellighenzia, in deportazioni nei gulag e in esecuzioni di membri di spicco per mostrare al Paese la volontà di reprimere ogni frangia ritenuta ostile al potere sovietico. “Verso la fine di agosto del 1948 – nota Rapport – dopo l’improvvisa morte di Zdanov, una sconosciuta addetta al reparto radiologico dell’ospedale del Cremlino – Ljdija Timasuk – esaminò, chissà come e per conto suo, gli elettrocardiogrammi di Zdanov, e informò gli organi di sicurezza sulla possibilità che l’illustre membro d’apparato non fosse deceduto di morte naturale. La Timasuk era solo una paramedica, da sempre divorata dall’odio per la propria superiore (ebrea) direttrice del reparto elettrocardiografico, Sofija Karpaj (in odore di arresto, che puntualmente avvenne nell’estate del 1951)”. Quattro anni dopo, una sua lettera avrebbe svolto da catalizzatore per la campagna annunciata da Stalin all’inizio del 1953. Nell’ottobre del 1952 Semyon Ignatyev, capo del MGB, informò il capo di Stato che erano state trovate prove in merito all’esistenza di un complotto per eliminare i dirigenti del partito. Colpito dalla rivelazione, il dittatore ordinò l’arresto dei cospiratori, nove medici di cui sei ebrei, e ordinò alla Pravda di preparare il terreno mediatico alla campagna anti-ebraica: epurazioni e avvisaglie di pogrom cominciarono a svilupparsi per tutto il Paese, e si parla di circa 2.000 vittime tra la fine del 1952 e l’inizio del 1953. La morte di Stalin interruppe questo pericoloso trend. L’Urss, nella destalinizzazione, non proseguì in questa paranoica persecuzione. Ma tuttora è impossibile sapere cosa sarebbe stato degli ebrei sovietici, più volte perseguitati nelle terre rese sanguinanti dai due totalitarismi del Novecento, nei mesi e negli anni successivi. Misteri di una superpotenza comunista dalle enormi contraddizioni. Andata vicina a risvegliare i demoni che aveva sconfitto con la forza delle armi pochi anni prima.