di Vanessa Seffer (de Il Secolo d’Italia) – Nel suo ultimo libro “Scontenti – perché non ci piace il mondo in cui viviamo”, Marcello Veneziani descrive ciascuno di noi, per questo si legge tutto d’un fiato. Il pessimismo che ci caratterizza, il fatto di essere tutti astuti critici e profondi conoscitori della realtà contemporanea, depositari di verità e raffinati cultori di conoscenza. Nonostante tutto ciò, e pur vivendo nel paese più bello del mondo, infelici e scontenti. Quando Veneziani parla della moda eco-chic degli ultimi cinque anni, si capisce fra le righe che sotto si muove qualcos’altro, e senza farlo apertamente, spinge a ricordarci che dobbiamo sempre dubitare, di tutto, di tutti, almeno questo.
Si riflette su molte cose leggendo questo libro, per esempio sul fatto che pure chi ha il potere vive grandi disagi e sofferenze. Veneziani riporta una frase di Luigi XIV: “Tutte le volte che assegno una carica faccio cento scontenti e un ingrato”, il che ricorda una cosa nota, la sindrome rancorosa del beneficato, il sogno malefico di chi vuole distruggere chi ti ha fatto del bene per incapacità alla gratitudine, ma anche semplicemente alla benevolenza. Veneziani appartiene a quella categoria di intellettuali che descrivono la società lucidamente. La osserva e la critica storicizzandola senza compromessi.
Nel nostro paese sta emergendo da pochi anni a questa parte una nuova generazione di attivisti, intellettuali, esperti o pseudotali, di ambientalisti che vorrebbero assumere una leadership green, quella che lei definisce una “drammaturgia ambientale che non produce alcun effetto sull’ambiente”. Ha parlato di eco-ansia che genera nuove forme politiche di aggregazione.
La riduzione della natura ad ambiente e la riduzione del futuro al tema dell’inquinamento ambientale, sono il segno di una deculturazione di massa: l’umanità viene sradicata dal suo mondo, separata da ogni cultura, storia, memoria, religione, proiezione nell’avvenire, visione spirituale e indotta a ritenere che l’unico problema, l’unica emergenza, la vera priorità assoluta sia la salvaguardia dell’ambiente. Sparisce ogni realtà sociale, ogni legame comunitario, ogni ambito, in questa visione che mette insieme individualismo e globalitarismo, attraverso l’ideologia ambientale. Una civiltà tramonta ma l’unica nostra preoccupazione dev’essere il clima, o la plastica…
Carlo III parlava già 50 anni fa di ambiente, forse era un modo per dichiararsi “scontento”. Questo però per dire che il problema del clima è sempre esistito. Non solo negli ultimi cinque anni.
Il problema è esistito ed esiste. La follia è il riduzionismo, cioè la convinzione che il futuro e le nostre apprensioni si debbano concentrare solo su quel problema. Senza considerare il modello sociale ed economico, tecnologico e finanziario, i grandi temi della politica e della sovranità, le identità dei popoli e delle tradizioni.
Lei nel libro parla di un vecchio potere e di un nuovo potere, che tende a controllarci oggi in modo diverso rispetto a ieri. Come?
Il vecchio potere voleva cittadini contenti, o quantomeno rassegnati, e cercava di tenerli in quello stato somministrando loro feste, farina e forca. Il nuovo potere, invece, ci vuole perennemente insoddisfatti e scontenti di sé, in modo da indurci a nuovi consumi, cioè a nuove dipendenze. E in modo da riversare le nostre frustrazioni su noi stessi, su ciò che siamo: se la tua vita non ti piace, cambia la tua natura, cambia i tuoi legami, cambia il tuo paese, la tua identità, il tuo sesso, la tua età, diventa altro da te. Il nuovo potere è il maggiore impresario della scontentezza diffusa. Che però poi si ritorce contro il potere stesso, diventa incontrollabile e si fa malcontento e protesta.
È meglio quindi essere contenti o scontenti?
In assoluto e in via di principio, è meglio essere contenti. A patto che la contentezza non sia solo pigrizia, indolenza, rassegnazione. La scontentezza è un male, una sofferenza, una penuria, ma può diventare una formidabile energia, un motore di ricerca, una spinta al cambiamento. Nel mio libro dico in sintesi che accontentarsi è una virtù ma può diventare un vizio se è un alibi della nostra indolenza; essere scontenti è un vizio ma può diventare una virtù se ci spinge a migliorarci e a migliorare realisticamente il mondo circostante.
Aziende che chiudono, altre che vengono vendute, migliaia di giovani laureati che se ne vanno, anziani che vanno ad invecchiare dove è più conveniente. Lo ha definito: “Dimettersi da italiani, cambiare paese come si cambia gestore telefonico perché più vantaggioso”. Da un acuto osservatore, scontento e intellettuale come lei, auspico una qualche idea di soluzione.
No, da persona seria, con i piedi per terra, non do ricette, non millanto soluzioni. Pongo il problema e ipotizzo alcuni realistici comportamenti per avviare poi le nostre risposte: acquisire senso critico, avere consapevolezza della situazione, denunciarla, cercare compagni di strada in questa denuncia e nella voglia di affrontare questo disagio, dare buoni esempi… È importante un cambio di mentalità e una rivoluzione culturale prima ancora che un’azione pratica per cambiare. Scrivendo di libri io mi occupo di quei temi; altri che agiscono nel politico, nel sociale, nei poteri reali, hanno altri strumenti per poter avviare o tentare cambiamenti.
Nell’immaginario collettivo è prevalente l’idea che la sinistra sia l’unica depositaria di valori culturali necessari a disegnare il futuro e che, banalmente, sinistra faccia rima con progresso al contrario della destra, luogo dell’incultura, del provincialismo, incapace di decodificare i segni della modernità…
Il collasso dell’idea del progresso, la convinzione diffusa che il futuro oggi susciti più timori che speranze, già bocciano quella pretesa, quel primato e quella ideologia. Il problema è l’egemonia culturale, il fatto cioè che la “sinistra” abbia agito sulla mentalità e sulle idee dominanti, laddove tutte le altre forze, moderate, conservatrici, nazionali, tradizionaliste, di destra, hanno invece agito pragmaticamente. Ma nell’epoca in cui collassa la modernità e si crea un cortocircuito tra le sue promesse e i suoi danni, a maggior ragione è necessario un cambio di visione e di prospettiva.
Quanto bisogno c’è di una cultura di destra?
Non è questione di etichette, è questione di contenuti. Per ora sarebbe già un grande risultato se capissimo che non c’è un solo modo di capire e affrontare il presente, il passato e il futuro, ma ce ne sono almeno due, anzi molti di più. Sarebbe già un gran successo se uscissimo da questo automatismo, fatalismo, unidirezionale e guardassimo il mondo da piani diversi e sotto punti di vista diversi.