di Sherlock Holmes – Nel 2012 il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, s’è rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per sfuggire alla richiesta di estradizione della Svezia. Dopo 7 anni, l’11 aprile 2019, è stato arrestato dai servizi britannici. Il 4 gennaio 2021 un giudice britannico ha respinto la richiesta di estradizione degli Usa, ma il 10 dicembre 2021 l’Alta Corte di Londra ha ribaltato la sentenza di primo grado e il 20 aprile 2022 la Westminster Magistrates Court ha emesso l’ordine formale di estradizione
Per sette anni la sua casa è stata una piccola ambasciata nel cuore di Londra, dove aveva trovato riparo dopo la richiesta di estradizione inoltrata dalla Svezia per rispondere a una controversa denuncia del tutto inventata dagli Usa per abusi sessuali poi archiviata. Il fondatore di Wikileaks è rimasto rifugiato nella sede diplomatica dell’Ecuador dal 19 giugno 2012 fino all’11 aprile 2019, quando il Paese sudamericano ha deciso di ritirargli la cittadinanza e lo ha espulso, consentendo ai servizi segreti britannici di arrestarlo. Assange, che oggi ha 51 anni, è accusato negli Usa di violazione dell’Espionage Act (“Legge sullo Spionaggio”) contestata per la prima volta in un caso di pubblicazione di documenti riservati sui media, per aver contribuito a svelare dal 2010 documenti segreti del Pentagono relativi a crimini di guerra in Afghanistan e Iraq. Rischia una condanna a 175 anni di carcere, ma intanto il 4 gennaio 2021 una giudice britannica ha respinto la richiesta di estradizione negli Stati Uniti. Una sentenza che però è stata ribaltata il 10 dicembre 2021 dall’Alta Corte di Londra che ha accolto il ricorso del team legale americano e il 20 aprile 2022 la Westminster Magistrates Court di Londra ha emesso l’ordine formale di estradizione negli Usa.
Ecco le tappe principali della storia recente di Assange, dalla concessione dell’asilo politico al coinvolgimento nello scandalo Russiagate
- “Quest’uomo è un figlio, un padre, un fratello. Ha vinto dozzine di premi per il giornalismo. È stato nominato per il premio Nobel per la pace ogni anno dal 2010. Potenti attori, tra cui la CIA, sono impegnati in uno sforzo sofisticato per disumanizzarlo, delegittimarlo e imprigionarlo”. Con queste parole Wikileaks, la creatura che ha contribuito a fondare, descrive su Twitter Julian Assange. Classe 1971, giornalista, hacker e programmatore, nel 2007 è tra i promotori del sito web che, tra le altre cose, rivela centinaia di migliaia di file segreti del governo statunitense sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, sui rapporti delle ambasciate Usa e sulle schede dei detenuti di Guantanamo. Dal 2010 è in corso un’inchiesta del Grand Jury di Alexandria, in Virginia, per la pubblicazione dei documenti riservati. Negli Stati Uniti viene bollato come “nemico pubblico”.
- Nell’agosto del 2010, una donna accusa Assange di aver approfittato del sonno per stuprarla, senza preservativo. I due erano a Stoccolma per una conferenza. Lei afferma di avergli sempre rifiutato un rapporto sessuale non protetto. A dicembre l’australiano viene arrestato in Gran Bretagna e poi rilasciato su cauzione. Nel febbraio del 2011 Londra approva la richiesta di estradizione inoltrata dalla Svezia e invita Assange a presentarsi davanti a un tribunale per il 29 giugno 2012. Il 19 giugno Assange decide però di non presentarsi e chiede, invece, asilo all’Ecuador, che lo accoglie nella sua ambasciata a Londra. L’Ecuador, allora guidato dal presidente Rafael Correa, gli concede protezione perché ritiene fondate le preoccupazioni del fondatore di Wikileaks che l’estradizione in Svezia lo esponga al rischio di estradizione negli Stati Uniti.
- Nel 2017 esplode negli Stati Uniti il caso Russiagate, un’inchiesta giudiziaria nata a seguito di sospette ingerenze da parte della Russia nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America del 2016. Secondo l’intelligence americana, l’organizzazione guidata da Julian Assange ha collaborato con il Cremlino per condizionare le elezioni. Il 13 novembre 2017 Donald Trump Jr. pubblica lo scambio di messaggi con WikiLeaks durante le presidenziali negli Stati Uniti. Due mesi prima era invece filtrata la notizia che il deputato repubblicano Dana Rohrabacher avesse proposto a Donald Trump di offrire l’immunità ad Assange in cambio della sua disponibilità a escludere che fosse stata la Russia a fornire a Wikileaks le mail hackerate ai democratici durante la campagna per le presidenziali.
- Il 19 maggio 2017 la Svezia archivia le accuse. Riaprirà il caso solamente se Assange rientrerà nel Paese entro agosto 2020, altrimenti scatterà la prescrizione. Resta, per Londra, l’accusa di aver violato gli obblighi legati alla cauzione. L’11 gennaio 2018 l’Ecuador afferma di aver concesso la cittadinanza ad Assange, chiedendo inoltre a Londra di riconoscerlo come diplomatico in modo da evitargli l’arresto e la probabile estradizione negli Stati Uniti dove deve rispondere della pubblicazione di documenti segreti militari e diplomatici nel 2010. Londra respinge la richiesta. Il presidente dell’Ecuador, Lenin Moreno, chiede “una soluzione positiva a breve termine”. Il 6 febbraio 2018 il giudice britannico conferma il mandato di cattura. L’11 aprile 2019 l’Ecuador revoca l’asilo concesso ad Assange e l’ambasciata ecuadoregna a Londra lo espelle. Ad attenderlo le autorità britanniche che lo arrestano.
- A maggio 2019 Assange viene incriminato negli Stati Uniti. A suo carico vengono presentati 17 capi d’accusa sulla base dell’Espionage Act per avere cospirato per ottenere informazioni classificate poi diffuse online. I documenti erano stati forniti dall’ex militare Chelsea Manning, condannato negli Usa e poi graziato da Barack Obama. Se ritenuto colpevole, Assange rischia 10 anni per ogni capo d’accusa mosso nei suoi confronti. Nel febbraio 2020 inizia il processo per l’estradizione negli Usa ma il 4 gennaio 2021, la giudice distrettuale londinese Vanessa Baraitser ha respinto l’istanza americana con un verdetto di primo grado. La giudice Baraitser ha motivato la sua decisione citando le condizioni di salute mentale di Assange, ritenute molto precarie da diversi medici e dai suoi legali.
- Undici mesi dopo, la vicenda giudiziaria di Assange si arricchisce di un nuovo capitolo, con l’Alta Corte di Londra che, ribaltando la sentenza di primo grado, dice sì all’estradizione del fondatore di Wikileaks. I giudici britannici hanno accolto il ricorso del team legale americano che si opponeva al no alla consegna dell’ex primula rossa sulla base di un asserito pericolo di suicidio legato – secondo una perizia – al prevedibile trattamento giudiziario e carcerario. È ora previsto che il caso venga rinviato al tribunale di grado inferiore per essere ascoltato nuovamente. “Un grave errore giudiziario”. Così Stella Moris, compagna di Julian Assange e membro del suo team legale, ha definito, in un post pubblicato su Twitter da Wikileaks, il nuovo verdetto sulla vicenda. Moris ha annunciato la volontà di fare ricorso “al più presto possibile” alle autorità giudiziarie del Regno Unito.
- Il 20 aprile 2022 la Westminster Magistrates Court di Londra ha emesso l’ordine formale di estradizione negli Usa per Assange. Salvo un ricorso dell’ultimo minuto presso l’Alta Corte, spetta ora alla ministra degli Interni, Priti Patel, dare il suo via libera finale (ritenuto scontato) al trasferimento dell’attivista australiano negli Stati Uniti, dove rischia una pesantissima condanna. Il placet della ministra è previsto entro un termine massimo di 28 giorni. L’ordine di estradizione è stato emesso durante una breve udienza, durata solo sette minuti, dal giudice Paul Goldspring che ha detto: “In parole povere, ho il dovere di inviare il caso al ministro per una decisione”. Assange non era presente in aula ma collegato in videoconferenza dal carcere londinese di massima sicurezza di Belmarsh dove è rinchiuso da tre anni. Spetta a Patel la decisione finale sull’approvare il trasferimento negli Usa, che appare scontata se si pensa agli stretti rapporti di Londra con l’alleato americano. È infatti improbabile che possa negarla ad esempio per una questione relativa ai diritti umani. Resta la possibilità da parte dei legali di Assange di un ricorso all’Alta corte di Londra, ma le probabilità di successo sono ridotte al minimo dopo il lungo iter legale della magistratura britannica e soprattutto dopo che il mese scorso la Corte suprema si era rifiutata di riesaminare il caso. Fuori dal tribunale di Westminster alcuni attivisti di Wikileaks hanno protestato chiedendo di non estradare l’attivista negli Usa. Assange è riuscito a sposarsi il 23 marzo 2022 in carcere con l’avvocatessa sudafricana Stella Morris, la compagna che gli ha dato due figli durante il periodo d’asilo nell’ambasciata ecuadoriana, oggi presente all’udienza nello spazio dedicato al pubblico.
Ecco cosa rivelano i documenti esplosivi sul conflitto in Afghanistan che fanno tremare gli Usa
(Da un articolo di Stefania Maurizi per Micromega dell’Agosto 2021)
- Propaganda su misura
[…] Il 25 luglio 2010 WikiLeaks pubblicò gli “Afghan War Logs”, che mandarono il Pentagono su tutte le furie. I file erano 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Aprivano uno squarcio senza precedenti in quel conflitto lontano e ignorato. […] - Convincere gli alleati raccontando balle. Pochi mesi prima della pubblicazione di questi documenti, l’organizzazione di Julian Assange aveva pubblicato un memorandum riservato [1] della Cia, datato 11 marzo 2010. Non aveva fatto grande scalpore, eppure era importante perché spiegava le strategie da usare per scongiurare il rischio che l’opinione pubblica francese e tedesca si rivoltasse contro la guerra, chiedendo il ritiro dei loro militari. In quel periodo i due paesi europei avevano i contingenti più grandi in Afghanistan, dopo quelli di Stati Uniti e Inghilterra: un ritiro delle loro truppe sarebbe stato a dir poco problematico per il Pentagono.
- L’importante è mettere il silenziatore. Uno dei fattori su cui la Cia faceva più affidamento era proprio l’indifferenza che questa guerra generava nella pubblica opinione occidentale: se ne parlava rarissimamente nei giornali e si vedeva ancora meno in televisione, quindi stragi e atrocità non generavano alcuna reazione nell’opinione pubblica occidentale. “Lo scarso rilievo della missione in Afghanistan – scriveva infatti la Cia nel documento rivelato da WikiLeaks – ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l’opposizione della gente e di continuare ad aumentare costantemente il numero delle loro truppe nella missione Isaf”.
Il file consigliava, comunque, di non sperare solo nell’apatia, ma di preparare possibili strategie di persuasione nel caso in cui l’umore dell’opinione pubblica fosse cambiato. - Un racconto molto convincente. Gli argomenti propagandistici da usare:
- coi francesi, erano il possibile ritorno dei talebani al potere e gli effetti che questo avrebbe avuto sulla vita delle donne afghane: “La prospettiva che i talebani riportino indietro [il paese], dopo i progressi ottenuti faticosamente in tema di educazione delle donne, potrebbe provocare l’indignazione e diventare ragione di protesta per un’opinione pubblica largamente laica come quella francese”.
- Mentre la carta da giocare con i tedeschi era quella dei rifugiati: “Messaggi che illustrino come una sconfitta in Afghanistan possa aumentare il rischio che la Germania sia esposta al terrorismo, al traffico di droga e all’arrivo dei rifugiati potrebbero aiutare a rendere la guerra più importante per chi è scettico verso di essa”.
Per quanto rilevante questo documento non aveva avuto un grande impatto, quando però il 25 luglio 2010 WikiLeaks rivelò gli Afghan War Logs, i documenti furono rilanciati in tutto il mondo e la reazione del Pentagono fu durissima.
Una straordinaria finestra sul conflitto in Afghanistan
I 76.910 documenti segreti descrivevano la guerra come mai prima era stato possibile. Si trattava di brevi relazioni compilate dai soldati statunitensi che combattevano sul campo. Contenevano informazioni fattuali, incluse latitudine e longitudine dei luoghi in cui erano avvenuti scontri, incidenti e stragi di civili, il tutto descritto con data e ora esatta e in un gergo militare stretto.
I file registravano in tempo reale gli eventi significativi (SigActs, significant activities) dal gennaio del 2004 al dicembre del 2009, ovvero negli anni che andavano dal secondo mandato presidenziale di George W. Bush fino al primo anno dell’amministrazione di Barack Obama. Ogni unità e avamposto presente sul teatro di guerra doveva relazionare in modo estremamente sintetico su: attacchi subiti, scontri, morti, feriti, rapiti, prigionieri, fuoco amico, messaggi di allerta e informazioni sugli Improvised explosive devices (Ied), gli ordigni improvvisati piazzati lungo le strade e azionati a distanza che facevano strage di civili e soldati.
Ognuno dei report era come un’istantanea che fissava in un preciso momento e in un determinato luogo geografico il conflitto in Afghanistan. Mettendo insieme tutte le istantanee, soldati e intelligence potevano avere una visione completa della guerra, così come si sviluppava sul campo, azione dopo azione, in modo da poter fare piani operativi e analisi di intelligence.
I rapporti erano compilati dai soldati dell’esercito americano, lo Us Army, quindi erano il loro racconto del conflitto. Non contenevano informazioni di eventi top secret, perché si trattava di documenti classificati al livello secret.
Cos’era e a cosa è servita la fantomatica “Task Force 373”?
I documenti lasciavano emergere per la prima volta centinaia di vittime civili mai computate: il quotidiano inglese “The Guardian” aveva contato almeno 195 morti e 174 feriti, ma aveva fatto notare che il dato era sicuramente sottostimato. I file aprivano anche uno squarcio sulla guerra segreta che si combatteva con unità speciali mai conosciute prima di allora, come la Task Force 373, e coi droni, gli aerei senza pilota che, comandati dai soldati americani che si trovavano in una base del Nevada, uccidevano in posti remoti come l’Afghanistan.
La Task Force 373 era un’unità d’élite che prendeva ordini direttamente dal Pentagono e aveva come missione quella di catturare o uccidere combattenti di alto livello di al Qaeda e dei talebani. La decisione di chi catturare e chi ammazzare in modo stragiudiziale, ovvero senza alcun processo giudiziario, appariva completamente affidata alla task force [2].
Il valore degli Afghan War Logs rivelati da WikiLeaks stava proprio nel far emergere i fatti che la macchina della propaganda del Pentagono nascondeva e le oscure operazioni della Task Force 373 erano uno degli esempi. La brutalità con cui queste forze speciali agivano nella notte aveva portato a sterminare forze afghane alleate, donne e bambini. Questo tipo di attacchi contribuivano a creare un forte risentimento nelle popolazioni locali contro le truppe americane e della coalizione.
Ma nelle dichiarazioni ufficiali dei militari il nome della Task Force 373 non compariva mai e, come il “Guardian” aveva ricostruito [3], venivano nascoste informazioni per coprire errori e stragi di innocenti. Durante una delle loro operazioni, per esempio, i soldati della Task Force 373 avevano ucciso sette bambini. La notizia della loro morte era stata data in un comunicato stampa della coalizione, ma senza spiegare il contesto in cui era avvenuta. Nessuno aveva raccontato che quelle forze speciali, spesso, non avevano letteralmente idea di chi ammazzavano, come in questo caso: avevano sparato cinque missili contro una scuola religiosa, una madrasa, convinti di colpire un leader di al Qaeda, Abu Laith al-Libi. In un altro, invece, avevano sterminato sette poliziotti afghani e ne avevano feriti quattro, convinti di colpire gli uomini di un comandante talebano.
I file, però, non rivelavano solo i massacri commessi dalle truppe americane, ma anche dai talebani, in modo particolare quelli causati dai loro atroci attacchi con gli Ied. Secondo i dati riportati dal “Guardian”, dal 2004 al 2009 il database degli Afghan War Logs permetteva di ricostruire come gli Ied avessero causato oltre duemila vittime civili e come il 2009 fosse stato un anno particolarmente terribile, con cento attacchi in appena tre giorni. [4] Il quotidiano londinese evidenziava come gli Ied fossero l’arma preferita dai talebani, quella con cui cercavano di contrastare la schiacciante superiorità tecnologica delle truppe occidentali.
Le solite drammatiche leggerezze americane
L’intensificarsi degli attacchi contro truppe americane e della coalizione internazionale era registrato nei file a partire dalla fine del 2005. Scavando nella documentazione, il settimanale tedesco “Der Spiegel” aveva ricostruito che questa escalation era anche dovuta al fatto che i talebani e i signori della guerra, come il famigerato Gulbuddin Hekmatyar, minacciavano o anche pagavano cifre importanti, che potevano arrivare a diecimila dollari, [5] affinché la guerriglia locale portasse avanti azioni contro i soldati. I file rivelavano anche un’altra informazione mai emersa prima pubblicamente: dalle ricerche del “New York Times” nel database risultava che i talebani avevano ottenuto missili terra-aria trasportabili e a ricerca di calore del tutto simili agli Stinger che, venticinque anni prima, la Cia aveva fornito ai mujaheddin.
Si trattava di un contrappasso: la stessa tipologia di armi con cui i guerriglieri afghani avevano inflitto perdite devastanti ai sovietici, costringendoli alla ritirata, era finita nelle mani dei nemici degli americani in Afghanistan [6].
Quanto ai droni, presentati spesso come un’arma infallibile a rischio zero – visto che, come in un videogame, venivano pilotati da soldati che operavano in completa sicurezza da una base negli Stati Uniti –, non sempre erano così infallibili. I file, infatti, documentavano situazioni, ricostruite dal settimanale “Der Spiegel”, in cui le truppe avevano dovuto fare rischiose operazioni di recupero, perché quei velivoli senza pilota si erano schiantati al suolo e le informazioni segrete contenute nei loro computer potevano finire in mano al nemico. Non sempre, infatti, era possibile cancellare da remoto i dati presenti nei sistemi informatici dei droni [7] e, quando l’operazione falliva, i soldati sul campo in Afghanistan dovevano imbarcarsi in pericolose missioni. A oggi gli Afghan War Logs rimangono l’unica fonte pubblica che permette di ricostruire attacchi, morti, assassini stragiudiziali avvenuti in Afghanistan tra il 2004 e il 2009, considerata la segretezza di queste operazioni militari. Sono anche una delle pochissime fonti che abbiamo a disposizione per cercare di ricostruire il numero di civili uccisi prima del 2007, di cui nessuno pare avere dati affidabili, neppure la missione delle Nazioni unite in Afghanistan, l’Unama, che compila queste statistiche [8].
Il piacere di fare a pezzi i bastardi che si credono invincibili
Mentre scrivo nessuno sa che tipo di futuro attende l’Afghanistan. In particolare per quanto riguarda le donne, nel caso in cui i talebani tornassero al potere, anche perché nel frattempo nel paese è arrivato anche l’Isis. L’unica certezza è che non esistono dati affidabili su quanti civili siano stati ammazzati dall’ottobre del 2001 al 2006, mentre si sa che solo nel periodo dal 2009 al 2019 sono stati uccisi almeno 35.518 civili e ne sono stati feriti 66.546. Questo significa oltre tremila morti innocenti all’anno: è come se dal gennaio del 2009 al dicembre del 2019 in Afghanistan ci fosse stato ogni anno un 11 settembre, [9] eppure questa guerra è sempre rimasta fuori dallo schermo radar dell’opinione pubblica occidentale. E senza il coraggio di Chelsea Manning e di WikiLeaks, il segreto di Stato e la macchina della propaganda bellica non ci avrebbero mai permesso di acquisire le informazioni fattuali che abbiamo scoperto grazie agli Afghan War Logs. L’allora direttore del «New York Times», Bill Keller, li aveva definiti [10] «una straordinaria finestra su quella guerra».
Subito dopo la loro pubblicazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva intervistato Julian Assange, [11] chiedendogli: «Lei avrebbe potuto creare un’azienda nella Silicon Valley e vivere a Palo Alto in una casa con piscina. Perché ha invece deciso di dedicarsi alla creazione di WikiLeaks?».
Assange aveva risposto: «Si vive solo una volta e quindi abbiamo il dovere di far un buon uso del tempo a disposizione e di impiegarlo per compiere qualcosa di significativo e soddisfacente. Questo è qualcosa che io considero significativo e soddisfacente. È la mia natura: mi piace creare sistemi su larga scala, mi piace aiutare le persone vulnerabili e mi piace fare a pezzi i bastardi. E quindi è un lavoro che mi fa sentire bene».
Ma il Pentagono non la vedeva allo stesso modo e reagì con furia alla rivelazione degli Afghan War Logs. L’allora segretario alla Difesa Robert Gates promise subito «un’inchiesta aggressiva», mentre l’ammiraglio Mike Mullen aveva subito dichiarato: «Assange può dire quello che vuole sul bene che lui e la sua fonte credono di fare, ma la verità è che potrebbero avere già le mani sporche del sangue di qualche giovane soldato o di una famiglia afghana».
Un’accusa questa che sarebbe stata ripetuta acriticamente dai media per oltre un decennio, danneggiando seriamente Wiki-Leaks. Ma era vera?
Le mani sporche di sangue
Il veleno che il Pentagono aveva iniettato nel dibattito pubblico su WikiLeaks non tardò a dare i suoi frutti. Pochi giorni dopo la pubblicazione dei documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, l’idea che Julian Assange e la sua organizzazione fossero dei pericolosi irresponsabili iniziò a circolare nell’opinione pubblica e nelle redazioni dei giornali. Le parole dell’ammiraglio Mike Mullen sulle “mani sporche di sangue” si riferivano al fatto che, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, la diffusione dei 76.910 documenti segreti esponeva le truppe americane, quelle della coalizione internazionale e i collaboratori afghani – che fornivano loro informazioni e assistenza sul campo – al rischio di attentati da parte dei talebani, perché alcuni di quei file contenevano nomi o dettagli che permettevano di identificarli.
Era chiaro che il Pentagono avesse un grandissimo interesse nel delegittimare WikiLeaks a causa della pubblicazione di quei file e di altri precedenti, come il video Collateral Murder. Gli Afghan War Logs costituivano una vera e propria miniera di informazioni: la stampa e l’opinione pubblica mondiale potevano confrontare le dichiarazioni dei vari leader militari e governi, che avevano inviato truppe in Afghanistan, coi dati contenuti nei file e scoprire le menzogne ufficiali, le omissioni e le manipolazioni.
Quei documenti permettevano per la prima volta di diradare la nebbia della guerra, mentre il conflitto in Afghanistan era in corso e non venti o trent’anni dopo, quando ormai i fatti potevano interessare giusto agli storici di professione.
Era dal 1971 – quando Daniel Ellsberg fece uscire i Pentagon Papers: settemila documenti top secret sul Vietnam –, che l’opinione pubblica non aveva più avuto l’opportunità di accedere a migliaia di informazioni riservate su una guerra mentre questa era in corso. Di fronte alla dichiarazione dell’ammiraglio Mike Mullen era d’obbligo una notevole dose di sano scetticismo, perché era ovvio che il Pentagono fosse furioso con Assange. Eppure quelle parole fecero subito breccia nell’opinione pubblica e nei media. WikiLeaks non aveva pubblicato le rivelazioni sull’Afghanistan da sola, aveva stabilito una collaborazione con tre grandi giornali internazionali: il “New York Times”, il quotidiano inglese “The Guardian” e il settimanale tedesco “Der Spiegel”. Come già fatto con me nel caso del file audio sulla crisi dei rifiuti a Napoli, Assange e il suo staff avevano scelto di collaborare coi reporter di quelle tre grandi redazioni per diverse settimane, durante le quali i giornalisti avevano avuto accesso esclusivo ai documenti segreti in modo da poterne verificare l’autenticità e indagare sulle rivelazioni più importanti che ne emergevano.
Una valanga di documenti segreti
Finito questo lavoro, il “New York Times”, il “Guardian” e “Der Spiegel” avevano pubblicato le loro inchieste basate sugli Afghan War Logs e WikiLeaks aveva reso pubblici sul suo sito web i 76.910 file in modo che, dopo un periodo di accesso garantito solo a quei tre media, chiunque potesse leggerli.
Assange e il suo staff chiamavano questo tipo di collaborazione media partnership e la strategia aveva funzionato: tutto il mondo aveva seguito quelle rivelazioni, che avevano avuto un grande impatto internazionale ed erano state riprese da giornali, televisioni e media di ogni angolo del pianeta. Ormai WikiLeaks era un fenomeno globale.
Due cose mi colpivano, in particolare, di questa organizzazione: innanzitutto la sua scelta di democratizzare l’accesso alla conoscenza e alle informazioni, pubblicando i documenti per tutti, affinché qualunque cittadino, giornalista, studioso, politico o attivista del mondo potesse leggerli, fare ricerche mirate e indagare in modo del tutto indipendente sulla guerra in Afghanistan, senza doversi affidare esclusivamente a quello che i giornali avevano scritto. Trovavo questa scelta rivoluzionaria, perché permetteva a qualunque lettore di avere accesso alle fonti primarie delle informazioni pubblicate dai media, cercare i fatti a cui era più interessato, utilizzare i documenti per chiedere giustizia in tribunale e anche verificare come i giornalisti li avevano riportati nei loro articoli: ne avevano scritto fedelmente oppure li avevano distorti, esagerati o censurati? Questo processo di democratizzazione dava potere ai lettori comuni: non erano solo recipienti passivi di quello che riportavano giornali, televisioni, radio, ma per la prima volta avevano accesso diretto alle fonti primarie e questo diminuiva l’asimmetria tra chi aveva questo privilegio, come i reporter, e chi no.
Il coraggio del collega Assange
Oltre alla democratizzazione dell’informazione, mi colpiva ancora una volta il coraggio di Julian Assange e di tutti i giornalisti di WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, infatti, non si era limitato ad accusarli di avere “le mani sporche di sangue”, ma aveva anche intimato loro di rimuovere completamente gli Afghan War Logs dal sito e di restituire 15.000 file sulla guerra in Afghanistan che non avevano ancora reso pubblici. “L’unica soluzione accettabile – aveva dichiarato pubblicamente il portavoce del Pentagono, Geoff Morrell – è che WikiLeaks restituisca immediatamente tutte le versioni di quei documenti al governo degli Stati Uniti e che cancelli una volta per tutte i file dal proprio sito web e dai suoi computer. Se fare la cosa giusta per loro di WikiLeaks non va bene, allora vedremo che alternative abbiamo per costringerli a fare la cosa giusta”. Abbiamo visto. Era un’intimidazione da non sottovalutare: con la scusa della guerra al terrorismo, gli Stati Uniti avevano dimostrato che non si sarebbero fermati davanti a nulla e avrebbero usato ogni tipo di mezzo legale o illegale, dalla tortura agli assassini con i droni, contro chi percepivano come una minaccia alla loro sicurezza. Allo stesso tempo era da escludere che avrebbero usato mezzi così sfacciatamente brutali per neutralizzare Assange e WikiLeaks, che era un’organizzazione giornalistica del mondo occidentale e ormai molto visibile. Il documento del 2008 del controspionaggio americano, l’Army Counterintelligence Center (Acic) – che WikiLeaks stessa aveva rivelato –, aveva fatto emergere come le autorità americane puntassero a neutralizzarli colpendo le fonti che passavano loro documenti segreti, piuttosto che colpendoli direttamente.
In ogni caso quelle minacce andavano prese molto sul serio: suonavano grottesche a chiunque avesse un’idea della sproporzione tra la potenza e le risorse del Pentagono e quelle di una piccola organizzazione come WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti avrebbe potuto schiacciarla come un moscerino in qualunque momento. Ma Assange e il suo staff non si piegarono a quell’intimidazione. E per questo avrebbero pagato un prezzo molto alto.
NOTE
- Il documento riservato della Cia è accessibile a chiunque sul sito di WikiLeaks al link: https://wikileaks.org/wiki/CIA_report_into_shoring_up_Afghan_war_support_in_Western_Europe,_11_Mar_2010
- Nick Davis, Afghanistan War Logs: Task Force 373 – special forces hunting top Taliban, in “The Guardian”, 25 luglio 2010
- Ibid
- Nick Davies e David Leigh, Afghanistan War Logs: Massive leaks of secret files exposes the truth of occupation, in “The Guardian”, 25 luglio 2010; Declan Walsh, Paul Simon e Paul Scruton, WikiLeaks Afghanistan files: every Ied attack with coordinates, in “The Guardian”, 26 luglio 2010
- Explosive leaks provide image of war from those fighting it, in “Der Spiegel”, 25 luglio 2010
- C.J. Chivers, C. Gall, A.W. Lehren, M. Mazzetti, J. Perlez, E. Schmitt et al., View is bleaker than official portrayal of war in Afghanistan, in “The New York Times”, 25 luglio 2010
- Explosive leaks provide image of war from those fighting it, cit
- Il fatto che per i civili uccisi in Afghanistan dal 2001 al 2006 non esistano dati certi mi è stato dichiarato dalla missione delle Nazioni unite in Afghanistan, Unama, attraverso una comunicazione personale del 18 novembre 2020 di Liam McDowall, Director of Strategic Communications dell’Unama
- I dati sui civili uccisi e feriti provengono dal report della missione delle Nazioni unite in Afghanistan, Unama, dal titolo: Afghanistan protection of civilian in armed conflicts, 2019, pubblicato da Unama nel febbraio del 2020 e consultabile al link: https://unama.unmissions.org/sites/default/files/afghanistan_protection_of_civilians_annual_report_2019.pdf.
- The War Logs articles, in “The New York Times”, 25 luglio 2010
- John Goetz e Marcel Rosenbach, I enjoy crushing bastards, in “Der Spiegel”, 26 luglio 2010.