Washington (Il Post) – La Camera degli Stati Uniti ha approvato ufficialmente i due capi d’accusa presentati contro Donald Trump, avviandone la procedura di impeachment: Trump è quindi formalmente in stato d’accusa, accusato di abuso di potere e ostruzione ai lavori del Congresso, e affronterà un processo al Senato che deciderà rimuoverlo dalla Casa Bianca. Il primo capo d’accusa – abuso di potere – è stato approvato con 229 voti a favore e 198 contrari, mentre il secondo – intralcio alle indagini – con 230 voti favorevoli e 197 contrari. Donald Trump è diventato così il terzo presidente degli Stati Uniti a subire una procedura di impeachment, dopo Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998 (l’unico presidente statunitense a dimettersi, Richard Nixon, lasciò l’incarico spontaneamente quando gli sembrò chiaro che la Camera lo avrebbe messo sotto impeachment).
L’impeachment è una procedura politica per rimuovere il presidente dalla propria carica, e funziona come un processo: dopo il voto alla Camera, nelle prossime settimane si terrà un dibattimento in Senato, presieduto dal giudice capo della Corte Suprema, al termine del quale un voto deciderà se rimuovere o no il presidente dalla Casa Bianca. Mentre per mettere il presidente in stato d’accusa basta una maggioranza semplice, però, per rimuoverlo serve un voto dei due terzi del Senato: e i Repubblicani, che stanotte hanno votato in modo compatto contro l’impeachment, controllano la maggioranza dei seggi del Senato. Per questo ci si attende che Trump venga assolto, salvo sorprese, e i dubbi principali a oggi riguardano i tempi del processo, che si sovrapporrà almeno parzialmente con la campagna elettorale in vista delle elezioni del 2020.
Un processo giusto
Ci sono dubbi, però, su quando effettivamente inizierà il dibattimento in Senato: la speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, al termine del voto di oggi ha detto che aspetterà a inviare gli atti dell’impeachment al Senato finché non ci saranno garanzie per un processo giusto. La scorsa settimana, infatti, il leader dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, che coordinerà il processo di impeachment da qui in poi, aveva detto che non sarà suo compito essere un giudice imparziale e aveva respinto la richiesta dei Democratici di accettare nuovi testimoni.
Durante il voto della Camera, Trump ha commentato l’impeachment prima su Twitter, come suo solito, dicendo di non essere affatto preoccupato, e poi da Battle Creek, in Michigan, dove era andato per un comizio elettorale. Qui Trump ha continuato a respingere le accuse rivoltegli dai Democratici, dicendo di non aver “mai fatto nulla di sbagliato”, e parlando di “caccia alle streghe”.
“Questo impeachment – ha detto Trump – di parte e contrario alla legge è un suicidio politico per il Partito Democratico”.
Trump ha poi commentato il fatto che durante il voto non ci sia stata nessuna defezione da parte dei repubblicani e che, anzi, quattro Democratici abbiano votato contro i capi d’accusa. Tra questi c’è stata anche Tulsi Gabbard, deputata Democratica delle Hawaii candidata alle primarie del partito per le elezioni del 2020. Gabbard ha votato i due articoli rispondendo “Presente”, e motivando la sua decisione dicendo di “essere arrivata alla conclusione di non essere in grado di votare sì o no”. Gabbard, che ha 38 anni e che alle primarie del 2016 era stata una dei pochi membri del Congresso a sostenere Bernie Sanders, lo scorso ottobre era stata accusata da Hillary Clinton di essere appoggiata dalla Russia e dai Repubblicani per presentarsi alle elezioni come candidata indipendente.
Di cosa è accusato Trump
Le accuse contro Trump sono motivate dal fatto che quest’anno, tra la primavera e l’estate, ha fatto pressioni sul neoeletto presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, perché aprisse un’indagine che danneggiasse uno dei suoi principali rivali politici, Joe Biden, approfittando dell’incarico ottenuto dal figlio di Biden, Hunter, nel consiglio d’amministrazione di una società ucraina (le accuse contro i Biden sono infondate). Le pressioni esercitate da Trump hanno utilizzato la forza e gli strumenti della presidenza e della politica estera degli Stati Uniti: Trump ha fatto esplicitamente la sua richiesta a Zelensky durante una telefonata formale dallo Studio Ovale, dopo aver bloccato una tranche di aiuti economici e militari diretti all’Ucraina, e ha posto l’apertura dell’indagine come condizione per acconsentire a una visita ufficiale di Zelensky a Washington, dove il presidente ucraino stava cercando di essere invitato per legittimarsi davanti alla comunità internazionale. La campagna di pressioni è stata poi portata avanti – su indicazione di Trump – dal suo avvocato personale e alleato politico Rudy Giuliani, aprendo così un secondo informale canale della politica estera statunitense, di cui comunque varie persone della sua amministrazione erano a conoscenza.
Nelle successive settimane il caso si è arricchito di prove, testimonianze e dettagli che hanno aggravato la posizione di Trump: abbiamo letto la trascrizione della telefonata, nella quale la richiesta avviene in modo esplicito (“Vorrei che ci facesse un favore”); abbiamo appreso dei molti incontri avuti a questo scopo da Rudy Giuliani, aggirando la diplomazia statunitense; abbiamo appreso di come gli aiuti economici e militari fossero stati bloccati su indicazione di Trump, e rilasciati solo a seguito della denuncia dell’intelligence; abbiamo appreso di come gli ucraini sapessero che gli aiuti erano stati bloccati per questo motivo; abbiamo appreso di come la Casa Bianca abbia cercato di far sparire ogni traccia della telefonata; abbiamo letto e ascoltato messaggi privati e testimonianze pubbliche di diplomatici statunitensi che hanno confermato ogni aspetto della ricostruzione