di Gennaro Carotenuto – Di nuovo tanto rumore per nulla nell’ennesima giornata decisiva in Venezuela? Quello di martedì 30 è stato un fallimento o una prova generale di colpo di stato? Intorno all’autoproclamato Juan Guaidó (nella foto con Leopoldo López) è come se si svolgessero da mesi dei ripetuti “stress test”. Quello che non si vede è ben maggiore di quello che è visibile in superficie e si sottovalutano attori, a cominciare dal Brasile.
Quello di martedì 30 aprile è stato uno stress test sull’esercito per vedere, come già a Cúcuta a fine febbraio, se c’è un punto d’inflessione oltre il quale un numero decisivo di esponenti degli stati maggiori possano rivoltarsi, uscendo dalle caserme dove devono restare, giocando con una guerra civile dietro l’angolo. Ma è stato stress test anche per la società civile. Come per i blackout di marzo, la convocazione di Guaidó e López è servita a misurare chi scende in piazza, chi tra i leader dell’opposizione è coerente e accetta l’attuale leadership. Questa da ieri è tornata ufficialmente a Leopoldo López, al quale Guaidó (anche se la grande stampa fa fatica a capirlo) scaldava il posto. Anche il déjà vu degli scontri di piazza da parte di bande di violenti organizzati, come già nel 2014 e 2017 (da non confondere con la legittima protesta dell’opposizione civile), sono stati limitati e si sono andati esaurendo al calar della notte. Ancora una volta nel 2019 – per fortuna – la società civile, chavista e anti-chavista, polarizzata quanto si vuole, si è tenuta lontana dalla violenza.
Ogni attore in Venezuela ha la sua agenda. Ma di agende in Venezuela sembrano essercene troppe in queste ore, anche senza guardare agli stakeholders internazionali. USA, Colombia e Brasile da una parte, Cuba, Russia e Cina dall’altra. L’Europa resta asino in mezzo ai suoni, anche senza arrivare allo scorno di Tajani, che twitta plaudendo al golpe. Manifesta così di considerare che anche un Pinochet venezuelano, oltre a Mussolini, farebbe cose buone. L’UE quindi si muove per lo più su un discorso pop, anti-chavista a prescindere, che in nulla incide, e dal quale non vuole o non sa recedere. Il solo Ministro degli esteri spagnolo Borrell, oltre forse a Federica Mogherini, ha capito che l’unica speranza per il Venezuela l’aveva sfiorata Zapatero col tavolo fatto inopinatamente saltare ad accordo fatto, prima delle presidenziali di maggio 2018. Tanto c’è Maduro al quale si possono dare tutte le colpe.
Dunque il mondo ha guardato per 24 ore al Venezuela per la diserzione di una trentina di soldati di grado medio e basso, con alla testa un solo generale di peso, Manuel Ricardo Figueroa, subito rimosso, e per liberare Leopoldo López dai domiciliari? Troppo poco per essere vero. L’incidente non è così minore come una volta archiviato lo vogliono far passare. Il senatore Marco Rubio, già protagonista del disastro di febbraio a Cúcuta, per giorni ha aumentato i toni nel chiamare le Forze Armate Nazionali Bolivariane (FANB) al golpe. Lo ha fatto con un discorso a metà strada tra l’invito, la minaccia e la promessa. Invito a restaurare la democrazia, minaccia di far passare l’esercito a essere parte del problema in caso di intervento esterno, promessa di prebende infinite e amnistia tombale in caso di golpe. Il problema è che anche minacce e promesse non possono ripetersi all’infinito. A Cúcuta, le poche decine di militari che disertarono, lamentarono che Marco Rubio in persona avesse promesso loro 20.000 dollari a testa. Ovviamente mai visti. Più di questo gli USA non possono fare, e ventilare interventi diretti, piace tanto ai giornali parlarne, è fuori dalle cose possibili, per molti motivi. Il primo di questi motivi è che il Brasile non vuole. Ai media piace riproporre eternamente gli stessi stilemi e quindi spiegano tutto come un redivivo derby USA-URSS. Non hanno registrato che già a Cúcuta in febbraio – altro stress test – si scomodò il vice del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il generale Hamilton Mourão, per chiarire oltre ogni ragionevole dubbio che il Brasile non accetta interventi esterni. Se la FANB si libera della sua lettera B (bolivariana) da sola, per il Brasile va bene, altrimenti non saranno né statunitensi né colombiani a intervenire in quello che Brasilia considera il proprio spazio strategico amazzonico. Il governo brasiliano è un governo nazionalista dove generaloni veri, a cominciare da Mourão e l’ex-capo del MINUSTAH Vilas Boas, hanno una chiara visione geopolitica delle cose, ereditata dalla dittatura del 1964. In questo però va detto che la posizione del Brasile non è sostanzialmente cambiata da quando a Brasilia sedeva l’alleato di Chávez, Lula da Silva, oggi prigioniero politico del regime bolsonarista.
Insomma, ancora una volta, chi da destra e da sinistra pensa che gli USA siano onnipotenti, martedì 30 non ha visto confermato il proprio pregiudizio. Gli USA sono un attore importante ma non sono onnipotenti. Cose simili a quelle di Rubio le hanno dette il miles gloriosus Pompeo, sempre con la mano alla pistola, John Bolton ed Elliott Abrams, il più sinistro dei personaggi coinvolti, conclamato Terrorista di Stato, massacratore delle guerre in Centroamerica. Questo ha sostenuto che i presunti militari golpisti avrebbero a un certo punto spento i cellulari. Bello sapere in che mani risiede la restaurazione della democrazia e della sovranità venezuelana, e chissà se e in che misura Abrams dica il vero. Sicuramente nello spifferarlo dimostra una malevola impotenza.
Agli USA comunque la soluzione militare non dispiaceva e non dispiace e continueranno a esperire ogni tentativo per spezzare la lealtà delle FANB. Piace il golpe, ma non sanno più cosa tentare. Dalle giornate di aprile del 2002, il primo grande golpe fallito contro Chávez organizzato come dio comanda dalle classi dirigenti venezuelane, da Bush jr., Aznar e dall’FMI, la lealtà delle FANB alla Costituzione non è più stata in discussione e magari prendete atto che se i militari restano nelle caserme è un bene superiore rispetto al tenersi un cattivo governo. Così, se martedì mattina da Rubio a Tajani, da Luís Almagro a… Gianni Riotta, tutti suonavano marcette militari, incontinenti nello sdoganare un tabù, e presumibilmente convinti che fosse la volta buona, nel pomeriggio Bolton e Abrams, che almeno sanno di cosa parlano, hanno cominciato a parlare di situazione confusa e a lavarsene le mani.
Diverso è solo il caso dei 5000 mercenari che Blackwater avrebbe reclutato, pagati da prominenti multimilionari venezuelani, sui quali molto ha scritto la Reuters. Quelli potrebbero infiltrarsi in mille modi e commettere le più odiose delle azioni terroristiche, sabotaggi, assassinii. Se confermato sarebbe un ulteriore tentativo di destabilizzazione che comunque troverebbe le FANB impegnate a contenerlo. Chioso: se c’è qualche liberaldemocratico che, pur di liberarsi di Chávez, fa il tifo perfino per i tagliagole che già agirono in Iraq, alzo le mani.
Dunque possiamo dire che alla base La Carlota si sperava in qualcosa di più grosso che non è andato. Che i disertori avessero alla testa il capo del SEBIN (i servizi venezuelani) Manuel Ricardo Figueroa è un fatto molto grave. Il suo ruolo fa pensare che così isolato da tentare un’azione suicida, concordata solo con i politici, è difficile che fosse. E sicuramente conosca chi è rimasto nell’ombra, perché leale al governo, o perché ha preferito non esporsi ancora. Oppure si è trattato di un 29 giugno venezuelano? Il 29 giugno 1973, il tanquetazo fu una vera prova generale dell’11 settembre in Cile, ma poi il golpe fu fermato, per tornare in tutta la sua ignominia in primavera.
L’alternativa è trovarci di fronte a una manovra personale più che politica: la romantica liberazione di Leopoldo dai suoi (comodi) arresti domiciliari. Di nuovo: per quale motivo? Per mettersi alla testa della “Operazione libertà” fino al Palazzo? O l’unico obiettivo di tutto l’ambaradan era proprio permettergli di fuggire dagli arresti domiciliari e rifugiarsi con Lilian Tintori e la figlia in un’ambasciata? Oppure López ha voluto consolidare la declinante, sempre più insignificante leadership di Guaidó, dimostrando contemporaneamente la subalternità di Guaidó a López stesso? Il rifugiarsi nell’ambasciata era programmato o è stato causato dalla precipitosa evoluzione negativa degli eventi di ieri?
Ricordo che Leopoldo López durante il fallito colpo di stato del 2002, condusse l’assalto all’Ambasciata di Cuba. Da allora dosa il ruolo di oppositore tra uso della violenza e quello della politica, contando sulla connivenza dei media che continuano a rappresentarlo come una specie di John Kennedy caraibico e di perseguitato politico. Pensa di essere più utile dall’estero che dai domiciliari? Sta gettanto la spugna pensando di godersi la vita a Madrid o a Miami? La storia latinoamericana è piena di esiliati che pensavano di tornare rapidamente, e possibilmente in trionfo, che invece ci sono invecchiati in esilio.
E Guaidó? Adesso chiama a uno sciopero generale, ma scaglionato, tutt’altro che la spallata finale a un regime descritto nuovamente sul predellino dell’aereo che deve portarlo in esilio. A memoria non ricordo un’insurrezione finale scaglionata e la lettura che se ne può fare è il tentativo di riportare lo scontro sul piano politico. Ma può Maduro – che piaccia o no è lui che governa – fare ancora finta di niente rispetto ai fatti del 30, o si caricherà del costo politico di arrestarlo, con la grande stampa internazionale pronta a considerare Guaidó un martire?
In vent’anni di rivoluzione bolivariana, con una buona dozzina di crisi maggiori, abbiamo visto che sul breve termine l’opposizione ha grande capacità di convocazione, ma col passare delle settimane sono i chavisti quelli che restano in piazza a difendere quello che continuano a considerare il loro governo popolare e il mandato di quello che – giova ricordare – è stato il più popolare e amato leader latinoamericano degli ultimi decenni, Hugo Chávez. Anche questa volta i chavisti stanno dimostrando compattezza, scendendo in piazza in numeri almeno comparabili a quelli dell’opposizione. Il golpetto di Caracas lascia più domande che risposte, ma che i chavisti esistano e continuino e continueranno a resistere è una delle poche certezze che questi tre mesi ci hanno donato.