Genova (Tatiana Santi di Sputnik Italia) – In queste ore è iniziata la demolizione di quel che resta del viadotto Morandi a Genova, crollato il 14 agosto 2018, provocando la morte di 43 persone. Secondo le stime il nuovo ponte sarà percorribile ad aprile 2020.
Ma la situazione dei ponti di casa nostra è per lo meno paradossale. Infatti la giornalista Milena Gabanelli ha reso pubblica la comunicazione inviata dall’ex presidente dell’Anas Gianni Armani al Ministero delle Infrastrutture, in cui emerge un dato allarmante: oltre 1400 cavalcavia del Bel Paese non avrebbero un ente di gestione. Quindi non è chiaro chi debba occuparsene, eseguire i controlli e la manutenzione dove necessario.
Mentre il ponte Morandi viene demolito pezzo dopo pezzo, il focus della questione rimane lo stesso: perché non avvengono i dovuti controlli delle infrastrutture? Chi ne risponde? Sputnik Italia ne ha parlato con Andrea Del Grosso, professore di tecnica delle costruzioni alla Scuola Politecnica dell’Università di Genova.
Secondo un’inchiesta resa pubblica dalla giornalista Gabanelli, sarebbero 1425 i viadotti senza proprietario. Professore Del Grosso, che cosa ne pensa di queste cifre? Che idea si è fatto?
Io non ho visto il reportage in questione, era però una situazione che mi era nota, come era nota a molti senza sapere le cifre esatte. Non esiste purtroppo ancora in Italia un inventario completo di tutte le opere. La cosa non riguarda solo i viadotti, poiché esistono anche molti siti industriali abbandonati con delle opere importanti, situazioni in cui nessuno sa chi se ne debba occupare. Qui si parla del tema dei viadotti poiché quest’estate c’è stata la vicenda del ponte Morandi, è però un problema abbastanza generalizzato.
Niente proprietario significa anche niente manutenzione né responsabilità in caso di crollo. Diciamo che è questo il punto centrale?
Sì. Per quanto riguarda le opere di viabilità, a meno che non siano private, qualcuno dovrebbe occuparsene… Però probabilmente erano consorzi che poi sono stati chiusi. Magari dei consorzi di bonifica che hanno costruito delle opere e poi, quando la vicenda del consorzio si è chiusa, le opere realizzate non sono passate a nessuno.
Prima lei citava il caso del tragico crollo del ponte Morandi, dopo questo crollo abbiamo visto com’è tornata l’attenzione sulla sicurezza e sulla manutenzione delle infrastrutture. Ma perché non vengono effettuati i controlli necessari, è solo un problema di risorse o di sistema?
Gli enti concessionari lo fanno, qualche altro ente territoriale lo fa, non c’è però un vero e proprio sistema di controllo, anche se esiste un decreto ministeriale che impone di farlo. Non c’è un vero e proprio organismo di controllo, è un tema che è stato un po’ lasciato da parte.
Cosa fare allora con i ponti che hanno raggiunto una certa età, si parla di mezzo secolo, di sessanta o settant’anni. Secondo lei andrebbero ristrutturati o sarebbe più facile rifare queste infrastrutture da capo? Cosa ne pensa?
Non si può generalizzare, ma bisogna vedere caso per caso. Perché oltre ad un’obsolescenza di carattere strutturale c’è anche un’obsolescenza di carattere funzionale. Quindi il concetto di manutenzione di un’infrastruttura comprende sia la vera e propria manutenzione, il retrofitting delle strutture esistenti, sia la loro sostituzione o addirittura la sostituzione o l’affiancamento dell’intera infrastruttura.
Quindi è proprio un approccio alla gestione del sistema infrastrutturale che devo comportare sia il retrofitting di quel che c’è se ha senso farlo, sia la ricostruzione, demolizione e ricostruzione, ovviamente dopo aver fatto delle viabilità alternative. Questo secondo modo di procedere purtroppo è ostacolato da tutta una serie di procedure amministrative molto complesse e soprattutto molto lunghe che influenzano la realizzazione di opere nuove.
Purtroppo le opere nuove richiedono dei tempi decisionali lunghissimi e quindi alle volte si soffre della presenza di queste infrastrutture obsolete. Adesso non ho dei numeri precisi, però in tutti i Paesi europei, Stati Uniti e Giappone, che sono quelli di infrastrutturazione più antica, la percentuale di opere che hanno superato la vita di progetto è elevatissima e sarà intorno al 40 — 50%, probabilmente in Italia anche di più, arrivando al 60%.
Secondo lei quindi cosa bisognerebbe fare in primis? Creare un registro delle opere?
Creare un inventario, fatto sensatamente. Creare una rete di enti che siano responsabili della creazione dell’inventario e della realizzazione dei controlli; quindi stanziare delle risorse economiche che possano essere allocate sulla base di ottimizzazioni. Poi non si arriva mai a regime, perché si interviene su delle opere che hanno una maggiore criticità, ma nel frattempo diventano critiche le altre. Si tratta quindi di stanziare un budget per la manutenzione ed il controllo ed eventualmente per il rifacimento delle infrastrutture, per poi ottimizzarlo sulla base dell’inventario. Quello che fanno un po’ in tutti i Paesi, è quello che hanno iniziato a fare gli Stati Uniti all’inizio degli anni ’60 dopo alcuni importanti crolli di ponti.
Tra l’altro l’Italia, con la società Autostrade, è stata una delle prime in Europa ad applicare dei controlli di questo genere sulla propria rete. Rimane però una parte di opere, a parte quelle 1425 di cui non si sa chi se ne debba occupare, che sono in capo ad enti come i comuni, i quali non hanno né le risorse umane né quelle economiche per far fronte a questo impegno. Quindi ci vuole proprio una politica delle infrastrutture orientata sia alla messa in sicurezza delle opere che ci sono, che alla realizzazione di infrastrutture nuove, perché poi il tema è sempre uno: o il sistema infrastrutturale funziona ed è sicuro oppure no, se non lo è, bisogna intervenire nel modo migliore.