di Andrea Rovere – Bruciata viva. Ecco come ha rischiato di concludersi la vita dell’ennesima donna costretta in un letto d’ospedale a causa del gesto scellerato di un ex amante. È avvenuto a Vercelli, dove Mario D’Uonno, cinquantenne con a carico precedenti per stalking, ha appiccato il fuoco all’auto di Simona Rocca, quarant’anni, che era in macchina. Secondo le testimonianze, lui l’avrebbe infatti, prima minacciata intimandole di scendere, e dopo sarebbe passato a cospargere il veicolo (e la donna stessa attraverso il finestrino ancora aperto) con liquido infiammabile, scatenando poi le fiamme. Tutto questo a pochi passi dal luogo di lavoro di lei, commessa in un negozio di abbigliamento del Centro Commerciale Carrefour Vercelli.
Il movente è sempre lo stesso: l’incapacità di rassegnarsi alla fine di un rapporto. Ma come è possibile arrivare a tanto? Come è possibile assistere giornalmente a fatti di cronaca in cui una donna è malmenata, sfregiata o addirittura uccisa da un uomo il cui amore malato si trasforma in odio fino a sfociare in furia distruttiva?
Di questo abbiamo parlato con una nota psichiatra e psicoterapeuta alessandrina, che prende subito a chiarire un punto: certi uomini lo sono di fatto solo esteriormente, perché invece al loro interno sarebbe la parte bambina a predominare. Un simile tratto patologico si sostanzia infatti nel mancato affrancamento da quel senso di onnipotenza tipico dei bambini, e che quindi si traduce nell’incapacità di elaborare i “no” (abbandoni, rifiuti eccetera) e la frustrazione che ne deriva in modo adeguato, così come un adulto sano sa fare. Questi soggetti non sono in grado di controllare le pulsioni, di ridimensionare gli accadimenti, e tendono a credere che ogni cosa debba girare intorno a loro. Immaginiamoci dunque uomini del genere inseriti in una società dove tutto è enfatizzato, le vittorie come le sconfitte, e nella quale i media fanno leva costantemente sulle due pulsioni più potenti e profonde: il sesso e la violenza. Il mondo contemporaneo è l’humus ideale per l’attecchimento di simili patologie in determinati soggetti, solo che si tende a svicolare, spostando il focus altrove.
Ed è proprio questo un altro punto su cui la chiarezza deve essere massima: il fatto che oggi si parli molto di più di violenza di genere rispetto al passato è sicuramente positivo, solo che, molto spesso, lo si fa malamente, con estrema superficialità se non addirittura in modo strumentale. Parlare di uomini e donne inquadrandoli in logiche di contrapposizione, volendo stabilire dei primati di virtù a sostegno di specifiche tesi, è una prassi che si presenta, non solo fuorviante, ma potenzialmente foriera di nuove problematiche sociali. Ben diverso sarebbe invece puntare i riflettori su un grave fenomeno in accentuazione illuminando parimenti l’immane paradosso che abbiamo già brevemente tratteggiato, ovvero quello d’una società dove si condanna la violenza a parole ma poi, nei fatti, se ne favorisce l’esplosione. La nostra psicoterapeuta su tale aspetto non ha dubbi: le responsabilità delle istituzioni circa l’aumento degli episodi di violenza di genere (e della violenza in generale) in Italia sono varie e molto pesanti. Una politica che segue le tendenze per arraffare più voti possibile invece di promuoverne essa stessa di virtuose, che sacrifica l’etica alla logica di mercato, e che ha fortemente indebolito il concetto di autorità nell’intento di smarcarsi da ogni possibile accusa di autoritarismo, è una politica che spalanca le porte del Paese al caos e alle peggiori degenerazioni. Le regole e l’autorità, ci spiega la dottoressa, sono fondamentali, e lo Stato ha il dovere di essere molto chiaro e fermo in questo senso. Un uomo denunciato per stalking, minacce o percosse, le cui responsabilità siano pienamente accertate (e simili accertamenti devono avvenire in tempi brevissimi), va, a seconda dei casi, sanzionato pesantemente o punito col carcere nella certezza che la pena sarà scontata per intero. La fermezza su questo punto è fondamentale, e ciò vale per ogni tipo di reato. Le regole devono essere giuste, eque, espressione di saggezza, ma poi vanno applicate. Un uomo deve sapere che se commetterà una certa azione andrà incontro ad una determinata conseguenza, altrimenti non se ne esce.
E, a quanto pare, non se ne vuole uscire, poiché gli avvocati da noi interpellati hanno fornito tutti lo stesso identico responso: se in Italia una persona è condannata, ad esempio, a dieci anni di carcere, può dire di essere stata particolarmente sfortunata nel vedersi rilasciare dopo cinque. Il che risulta allarmante specie comprendendo che sulla base di una concezione assai distorta della pratica educativa come lo è in parte quella attuale, secondo cui esercizio dell’autorità ed autoritarismo coincidono, questo finisce con l’apparire persino sensato, e ci si convince dell’inutilità (se non della dannosità) di porre dei “paletti” al fine di educare i singoli così come le masse. Tant’è che, infatti, regole e paletti stanno saltando uno dopo l’altro, e l’asticella che segna il limite da non oltrepassare si alza costantemente. A tal proposito è di nuovo la nostra psicoterapeuta a farci notare quanto sia sintomatica l’abrogazione del reato d’ingiuria. Se chiunque può sentirsi libero di dare della “puttana” o del “bastardo” al proprio interlocutore in un qualsiasi bar o via della città, poiché ciò risulta accettabile e non porterà nessuna conseguenza in termini penali (un’ammenda, ad esempio), è ovvio che ci si ritrovi un passo più vicino a sentirsi legittimati nell’andare oltre, ovvero ad indulgere a pugni e schiaffi. Lo Stato ha il dovere di mettere paletti, così come l’autorità va esercitata (saggiamente) e fatta rispettare, e invece si pensa di operare il bene destrutturando progressivamente la società sulla scorta di un permissivismo che puzza alla radice, poiché intriso di ipocrisia, meschinità e, non di rado, insipienza. Pensiamo ad esempio alla condizione attuale di insegnanti e forze dell’ordine: queste due categorie sono per certi versi sulla stessa barca, poiché inibite nel corretto esercizio della propria autorità. Un poliziotto, così come un professore di liceo, non può certo essere legittimato a fare come gli pare, ma nemmeno si può andare avanti con una situazione in cui gli agenti le buscano per non rischiare di passar da carnefici e gli insegnanti alzano i voti perché sennò certi genitori li accusano di causare traumi ai ragazzi. Tutto ciò è un atto di profonda irresponsabilità da parte delle istituzioni, il quale si rispecchia nella non-educazione alla responsabilità promossa oggigiorno (anche in famiglia) e favorente l’escalation di violenza a cui assistiamo. L’incapacità di assumersi i propri oneri, unita a quella relativa all’accettazione del limite, è una miscela esplosiva che rischia davvero di mandare in cortocircuito la società, tant’è che anche la stessa violenza pare per certi aspetti molto diversa da quella di alcuni decenni orsono. Se analizziamo in parte il passato, ci accorgiamo infatti che, ancora negli anni ’50, persino la brutalità rispondeva ad un sistema di regole, di valori (condivisibili o meno), mentre oggi che non vi è più nulla a tracciare la via, in cui codici precisi di comportamento non vengono più inscritti con inchiostro indelebile nel senso comune collettivo, resta la violenza sganciata da qualsivoglia base razionale: cieca, incontrollata, nichilista. La violenza di chi, come l’uomo che dà fuoco all’ex compagna, viene da quell’incapacità patologica di sostenere un “no”, di controllare le pulsioni, di sublimare determinati istinti, e di ricondurre gli eventi alle giuste proporzioni.
Tutto questo non può essere ignorato, e anzi lo si dovrebbe portare al centro del dibattito pubblico. Costringere le istituzioni alle proprie responsabilità è il primo passo per favorire dei cambiamenti sostanziali, ma ciò non potrà avvenire se i cittadini non compiranno lo sforzo necessario a comprendere che la messa in discussione di alcune prassi da loro stessi acquisite dopo anni di “follie istituzionali”, e di parte dell’attuale modello socio-economico, è imprescindibile alla risoluzione di molti gravi problemi, violenza di genere in testa. In assenza di questo, rimarranno le solite chiacchiere e i soliti palliativi. Buoni certo per rinfocolare dibattiti in Tv sempre più scadenti, ma del tutto inadatti a levarci da una situazione che man mano si fa sempre più esplosiva.