Alessandria (Andrea Rovere) – Due ragazzi sui diciott’anni si azzuffano per strada. Una pattuglia dei Carabinieri, su segnalazione di qualche residente della zona, interviene per sedare la rissa, ma un terzo ragazzo, assistendo alla scena dal balcone di casa (nella quale scontava i domiciliari), pensa bene di scender giù, e tutti e tre si accaniscono sugli uomini della Bdenemerita con calci, pugni e testate. Risultato: prognosi di un mese per tre dei Carabinieri intervenuti.
Tutto questo è capitato pochi giorni fa qui ad Alessandria (nel quartiere Cristo), fra l’altro di prima mattina, ed è uno di quei casi sui cui crediamo sia bene mettersi un poco a riflettere. Se infatti gli episodi di violenza sono ormai cosa frequente lungo tutto lo stivale, che però non ci si fermi nemmeno di fronte alla divisa è un dettaglio che la dice lunga circa il punto a cui siamo arrivati.
Qualcuno subito sbotterà: “ci vuole la certezza della pena”! Vero. Ma non basta. Perché qui non stiamo parlando di banali episodi di criminalità da reprimere attraverso una severa applicazione delle norme del codice penale, bensì dell’Italia, di come in questo Paese sembri venir meno sempre di più quel senso del limite che è presupposto cardine del buon vivere sociale. Non passa giorno in cui non si legga (e in cui a noi non tocchi scrivere) di gente aggredita, derubata, magari uccisa, di donne violentate, e tutto questo senza che nessuno abbia davvero ben chiaro cosa fare. Tanto più che, se per trovare le soluzioni è logico pensar d’inquadrare le cause dei problemi, anche qui il terreno si presenta minato, poiché per molti, specie quando ricoprono cariche istituzionali, andare dritti al centro delle vere cause alla base del crescente imbarbarimento di una parte della popolazione italiana è come minimo sconveniente. Parlare infatti del senso del limite quale valore fondamentale già ai tempi dell’Atene di Pericle è una contraddizione in termini per chi dalla promozione dell’esatto opposto trae vantaggio, essendo che politica ed economia sono oggi più interconnesse che mai. E va da sé che allora si chiacchieri molto senza però spendersi convintamente affinché a livello educativo, e in modo coordinato, si lavori per “guarire” la società. Il punto principale, del resto, è proprio questo: l’educazione. Solo che anche quella sfera specifica è stata colonizzata dalla logica consumistica ormai accettata a destra e a manca come ovvia e naturale, e quindi tutto risulta più complicato, poiché educare al Bene significa in automatico promuovere consapevolezza circa la meschinità di tale logica. Riflettiamoci un attimo: a chi conviene un’azione educativa integralmente rivolta allo sviluppo della virtù e del Bene? A politici di somma ipocrisia che devono “vendere” le proprie ricette miracolose “fatturando” in campagna elettorale più degli avversari? O forse alle multinazionali e alle “fabbriche del nulla”, dove notte e giorno si escogitano stratagemmi per instillare nuovi bisogni e seminare insoddisfazione nelle masse? Il lettore può intendere da sé la risposta.
Ma per comprendere fino in fondo la situazione è necessario fare un passo in più, e rendersi conto che se nella Grecia antica, come dicevamo, il valore del metron in opposizione all’apeiron (ovvero della misura in opposizione all’illimitatezza) era fuori discussione, e la hybris, ossia la tracotanza, era considerata il peccato più grave, noi abbiamo strutturato un modello sociale che si sostanzia oggi del contrario. La nostra società è tracotante in tutto e per tutto. Ogni limite deve essere superato; ogni argine abbattuto. E questa la chiamiamo libertà. Niente di più facile allora che nemmeno l’autorità di un pubblico ufficiale sia riconosciuta e susciti un qualche timore reverenziale. Del resto, laddove nulla è più sacro, nulla è più intoccabile, si favorisce il caos, e questa confusione, questa assenza di “paletti” a delineare il percorso, si riflette nei comportamenti di tutti coloro che, per un motivo invece che per un altro, non hanno sviluppato in loro stessi una struttura morale che consenta di discernere istintivamente fra bene e male. Ed è proprio lì che si dovrebbe andare a lavorare fra i banchi di scuola, sullo sviluppo di una simile struttura, supportando questa imprescindibile azione educativa con esempi istituzionali che si pongano in antitesi allo strapotere delle leggi di mercato su quelle dell’etica. In sintesi, invece d’infarcire i giovani di mille nozioni, per lo più di carattere tecnico, che toccano solo la superficie, bisognerebbe far sì che approfondiscano lungo tutto il percorso scolastico quei concetti di base i quali costituiscono le colonne portanti del vivere civile. Oggi invece, come sostiene del resto il professor Luca Grecchi, filosofo e docente all’Università di Milano Bicocca, abbiamo ragazzini di nove o dieci anni perfettamente in grado di utilizzare smartphone, computer, tablet, di spiccicare frasi in un paio di lingue straniere, ma del tutto confusi circa i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno di loro degli uomini in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.
Lo scenario è allora quello di una società liquida, per dirla alla Bauman, dove in strada così come a scuola, e spesso anche in famiglia, mancano i punti fermi e ognuno naviga a vista, col risultato che sempre più ragazzi si perdono. Hai voglia allora a parlare di emergenza bullismo, di intolleranza e di criminalità dilaganti, quando per primo chi pontifica dal proprio scranno istituzionale non ha il coraggio di dire le cose come stanno gridando una buona volta: “il re è nudo”! Tv e giornali, al contrario, sono pieni di “supercazzole” ormai insopportabili spacciate ai cittadini come perle di saggezza, e tutto ciò quando, nella realtà dei fatti, si specula su qualunque cosa e si strumentalizza qualunque cosa: dalle tragedie storiche a sentimenti nobili come la compassione, l’altruismo, la solidarietà; dai drammi quotidiani dei singoli ai fenomeni di maggiore incidenza sociale, per non parlare poi delle paure della gente.
Ma nonostante l’evidenza si insiste, perché se così non si facesse crollerebbe il castello di carte su cui si regge il potere di quelle élite politico-finanziarie che, al di là delle frasi di circostanza davanti alle telecamere, è facile credere intendano certe ombre del presente come “effetti collaterali” di una prassi necessaria (a loro). E quindi la strategia resta la solita, ciclica e di gattopardesca memoria: cambiare sempre tutto affinché nulla cambi.
Per quanto continueremo a permetterlo?