di Andrea Rovere – Giusto pochi giorni fa, il primo dell’anno, un uomo è ritrovato morto in un campo alla periferia di Ovada. Si tratta del cinquantatreenne Massimo Garitta, faccia nota a molti, in città, e a cui molti hanno allungato più di una volta qualche spicciolo o una sigaretta quando lo vedevano in giro a mendicare, pur se un vero e proprio senza tetto non lo era. Garitta era infatti assegnatario di una casa popolare, e tuttavia viveva ai margini, dedito a piccoli traffici, allo spaccio di stupefacenti, tossicodipendente lui stesso e già schedato da tempo negli archivi della questura locale. Un tipo riconosciuto come mansueto, che pare non avesse mai dato fastidio a nessuno, ma che nondimeno poteva dirsi persona poco raccomandabile. Questo lo sapevano tutti, nella piccola Ovada. Ed è quasi certo lo sapesse anche Aurela Perhnati, la ventiquattrenne di origini albanesi che però, non solo ci scambia qualche parola per strada la notte di San Silvestro, ma lo carica in auto dirigendosi poi fuori città sino a raggiungere quel luogo isolato dove l’uomo sarà trovato cadavere nel primissimo pomeriggio seguente.
Risalire alla ragazza, oggi accusata di omicidio, non dev’esser stato troppo difficile. Sul giubbotto di Garitta, oltre agli evidenti segni di pneumatico, erano impressi i caratteri alfanumerici che contraddistinguono la matricola d’un certo tipo di marmitta, proprio quello in dotazione alla Lancia Ypsilon guidata dalla Pernhati. Ovvio allora che sia stata la sua auto a schiacciare Massimo causandone la morte.
E che vada ora appurata l’intenzionalità o meno di uccidere da parte di chi la conduceva.
Una brutta storia, insomma, che andrebbe raccontata per quello che è.
Nella sua miseria.
E invece si finisce sempre col rinvenire qualcuno che non resiste alla tentazione di strumentalizzare fatti di cronaca in cerca di un duplice risultato: nutrire la propria fede politica e compiacere il “padrone” di turno.
Ed è proprio questa l’impressione che si ricava a leggere o ad ascoltare chi, invece di attenersi ai fatti fornendone magari un’interpretazione ragionata, si affanna a dipingere il ritratto di un’ennesima “eroina femminista” coi lineamenti stavolta di Aurela Pernhati.
Secondo le dichiarazioni della ragazza, Garitta avrebbe infatti tentato di forzarla ad avere un rapporto sessuale – da lì sarebbe nato il parapiglia sfociato poi nel tragico epilogo – e tanto basta a certi giornalisti, politici e maître à penser dei nostri tempi per ridurre l’intera vicenda alla storia dell’orco e la fanciulla.
Intendiamoci, a qualunque uomo resosi responsabile di un tentativo di abuso sessuale non può essere concessa la benché minima giustificazione od attenuante, e che Aurela abbia fatto di tutto per scamparvi è più che legittimo.
Detto ciò, qui abbiamo una giovane e bella ragazza che, per motivi che non ci riguardano, fa salire in auto al suo fianco un mezzo tossico e spacciatore della zona, guida fino ad un’area isolata fuori città, riesce a divincolarsi dalle grinfie del presunto molestatore e poi, quando questi è ormai fuori dall’abitacolo, lo investe (accidentalmente?) e se ne va a casa, o in qualunque altro posto, ma non in questura a denunciare l’accaduto.
I fatti emersi dalla ricostruzione sono questi.
Né più, né meno.
Ma quello su cui alcuni sembrano voler puntare i riflettori è invece la storia di felice integrazione di una famiglia albanese in Italia – come se ci fosse da crederlo improbabile –, sottolineando il fatto che si trattasse di gente onesta, seria e laboriosa, che la stessa Aurela si fosse sempre data da fare, che non avesse mai sgarrato una volta, e che in fondo in tutta questa vicenda vi sia un’unica vittima: lei. Perché ormai da tempo funziona così, certi “quadri” non possono essere raccontati nella realtà delle luci e delle ombre che li compongono, ma si debbono “aggiustare” in modo da restituire un’immagine aderente all’estetica politically correct imposta dagli attuali “padroni del discorso”.
E tale estetica prevede che coloro i quali griderebbero subito all’eccesso di legittima difesa davanti ad una rapina finita in tragedia – con la morte del rapinatore – in un caso come questo si presentino invece grondanti buonafede, pronti ad additare come malpensante chiunque si ponesse qualche interrogativo sulla possibile volontà di falciare il Garitta e, di conseguenza, sulle eventuali ragioni alla base di quello che allora sarebbe omicidio volontario.
No, qui abbiamo una donna, per di più con una storia di emigrazione alle spalle, che potrebbe aver subìto un tentativo di abuso da parte di un italiano, quindi tutto il resto non è rilevante.
Morto compreso.
C’è materiale a sufficienza per inoculare la dose quotidiana di propaganda politico-ideologica cara a certa sinistra di questi anni foschi.
Così come a destra ci sarebbe stato chi, specularmente, avrebbe fatto altrettanto sulla scia di differenti “linee guida”: se infatti l’uomo fosse stato un ghanese o un nigeriano, avremmo letto e ascoltato le solite tiritere circa gli extracomunitari violenti, spacciatori eccetera, rendendo il resto mero contorno. E questo perché la spudoratezza e la mancanza di decenza (diciamolo pure) non conoscono diritti d’esclusiva. Viaggiano da sinistra a destra senza guardare in faccia nessuno, in tale forsennata soluzione di continuità da rendere gli esercizi di onestà intellettuale e di ricerca della verità degli atti rivoluzionari.
A dirla tutta, in questa vicenda non vediamo martiri.
Vediamo semmai due vittime: del nichilismo dei tempi, della società di consumo postmoderna, e di se stesse.