Roma – Questa settimana è ufficialmente iniziato il congresso del Partito Democratico, il principale partito italiano di opposizione, che si concluderà il prossimo marzo con le primarie per la scelta del segretario. Negli ultimi giorni tutti i potenziali candidati di cui si parlava hanno annunciato le loro intenzioni, e quindi abbiamo finalmente un’idea chiara di chi parteciperà al congresso, di chi sono i favoriti e chi sono tutti gli altri.
Nella prima fase del congresso, voteranno soltanto gli iscritti al partito. Le primarie vere e proprie, alle quali potranno votare anche i simpatizzanti del partito, si terranno in una seconda fase alla quale potranno partecipare tutti quei candidati che hanno raccolto almeno il 5 per cento di voti e, in ogni caso, tutti quelli che hanno raccolto almeno il 15 per cento dei voti in almeno cinque regioni diverse. Se alle primarie nessun candidato otterrà il 50 per cento più uno dei voti, il nuovo segretario del Partito Democratico sarà deciso da un voto dell’Assemblea, l’organo principale del partito, i cui membri sono eletti in modo proporzionale alle primarie attraverso liste collegate ai candidati alla segreteria.
I favoriti
Ci sono tre candidati che sono considerati “favoriti” e che, salvo sorprese, avranno accesso alle primarie (ma potrebbero riuscire ad accedervi anche altri candidati “minori”). I tre sono il presidente del Lazio Nicola Zingaretti, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e il segretario uscente Maurizio Martina.
Fra i tre, Nicola Zingaretti è considerato il favorito e quasi tutti i sondaggi (da prendere in questa circostanza con ancora più cautela del solito) gli assegnano un margine sul secondo che va da pochi punti percentuali fino a più di una decina. Zingaretti, che ha 52 anni ed in passato è stato presidente della provincia di Roma oltre che presidente del Lazio per un intero mandato, è stato il primo a presentare la sua candidatura (facendo intuire piuttosto chiaramente le sue intenzioni praticamente già nelle settimane successive alle elezioni del 4 marzo).
La forza della sua candidatura deriva in parte dalla sua esperienza (è il candidato con la carriera amministrativa più lunga alle spalle), dal consenso locale di cui gode (non molto diffuso oltre il Lazio e l’Italia centrale, però) e dall’ampia coalizione di dirigenti di partito che lo sostiene: da un lato c’è la minoranza di sinistra del partito, l’area sconfitta da Renzi alle primarie dell’anno scorso e rappresentata da dirigenti come l’ex ministro Andrea Orlando e Gianni Cuperlo; dall’altro ci sono i centristi guidati dall’ex ministro Dario Franceschini (ritenuto uno dei dirigenti più scaltri nelle questioni interne di partito) e rappresentati anche dall’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
Sulla carta, quindi, Zingaretti si presenta come un candidato di sinistra che punta a ricucire i rapporti con l’elettorato, i militanti e il ceto politico deluso dallo spostamento del partito verso il centro avvenuto durante la segreteria di Matteo Renzi (in vista di una sua possibile vittoria si parla già di un riavvicinamento con alcuni fuoriusciti di Articolo 1-MDP, con i quali Zingaretti ha personalmente un buon rapporto). Molti dei suoi alleati, però, hanno un profilo più centrista, oltre ad aver condiviso gran parte delle scelte fatte dagli ultimi governi guidati dal PD. Sarà quindi importante capire come Zingaretti bilancerà la continuità con il passato, necessaria per non alienarsi i suoi influenti alleati, e l’offerta di un rinnovamento nei programmi e nel personale politico, che gli serve a riprendere i delusi e gli scoraggiati.
L’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, 62 anni, si presenta invece come un candidato in piena continuità con il governo Gentiloni – che però sostiene Zingaretti, il candidato della discontinuità – e con quello precedente guidato da Matteo Renzi. La sua candidatura è considerata molto forte e gran parte dei sondaggi lo danno a poca distanza da Zingaretti (alcuni anche sopra). Minniti è stato ministro dell’Interno durante tutto il governo Gentiloni, un periodo nel quale ha incarnato la nuova “linea dura” del PD contro l’immigrazione. È stato lui a sottoscrivere gli accordi con il governo libico (e, secondo numerose inchieste giornalistiche, con le milizie locali) che hanno permesso di arrivare quasi a bloccare i flussi migratori. Sempre lui ha iniziato lo scontro con le ONG impegnate nei soccorsi, obbligandole a sottoscrivere un codice di comportamento.
Secondo molti, è per via di questa sua “linea dura” che Minniti è spesso risultato il ministro più popolare del governo Gentiloni (ma nel collegio di Pesaro, dove si era presentato alle elezioni del 4 marzo come candidato all’uninominale, è arrivato soltanto terzo, sorpassato anche da un candidato espulso dal Movimento 5 Stelle che non aveva fatto campagna elettorale). Dopo essere stato considerato “dalemiano” per una lunga parte della sua carriera politica, oggi Minniti è sostenuto dai “renziani”, con i quali però ha un rapporto ambiguo. Finora ha preferito non farsi identificare al 100 per cento con il gruppo di parlamentari e dirigenti capeggiato da Renzi. Per questo, secondo i giornali, ha rifiutato di candidare la renzianaTeresa Bellanova come sua vice, preferendo invece circondarsi di figure più vicine a lui che a Renzi (secondo i giornali però dovrebbe accettare come coordinatore della sua campagna elettorale Luca Lotti, il parlamentare più vicino a Renzi).
Il terzo favorito è il segretario uscente Maurizio Martina, l’ultimo in ordine di tempo a ufficializzare la sua candidatura (di cui comunque già si parlava da settimane). Come Zingaretti e Minniti, anche lui proviene dalla trazione dei Democratici di Sinistra, cioè degli eredi del PCI. Era un sostenitore di Pier Luigi Bersani e un membro della maggioranza del partito, ma passò in minoranza dopo le primarie del 2013 vinte da Renzi (Martina aveva sostenuto Cuperlo). Dopo un anno e mezzo (all’epoca era ministro dell’Agricoltura) si staccò dalla minoranza e passò in maggioranza con Renzi. Al congresso del 2017 Renzi lo candidò come suo vicesegretario, ruolo che gli permise di diventare segretario in seguito alle dimissioni di Renzi dopo le ultime elezioni.
Oggi Martina è sostenuto da un gruppo eterogeneo di dirigenti, molti dei quali provengono dall’area renziana, per esempio l’ex ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio (che in passato si definiva un “fratello maggiore” di Renzi) e l’ex consigliere economico Tommaso Nannicini; altri, pur essendo usciti dalla maggioranza di partito, non sono renziani in senso stretto, come il presidente del partito Matteo Orfini e le deputate Giuditta Pini e Chiara Gribaudo (erano tutti presenti al lancio della sua candidatura). Nelle sue prime uscite, Martina è sembrato sottolineare una sua maggiore “radicalità” rispetto agli altri due candidati, affermando di essere quello “più di sinistra”. Se Minniti probabilmente non intende occupare questo spazio politico, Martina dovrà comunque contenderlo a Zingaretti e cercare di presentarsi come una scelta di maggiore rottura rispetto al passato (non sarà facile, visto la sua partecipazione a tutti gli ultimi governi e la sua stretta alleanza con Renzi, interrotta solo pochi mesi fa).
Gli altri
Ci sono altri quattro candidati al congresso che, stando ai sondaggi, non hanno molte possibilità di vincerlo, ma potrebbero risultare determinanti se a scegliere il segretario non saranno le primarie, ma l’Assemblea (cosa che avverrà se nessun candidato otterrà il 50 per cento più uno dei voti). Il primo a candidarsi dopo Zingaretti è stato Matteo Richetti, modenese, 44 anni, oggi senatore e nella scorsa legislatura deputato del PD. Richetti era stato a lungo uno dei principali alleati di Matteo Renzi, ma il suo desiderio di ritagliarsi un ruolo politico autonomo li ha spesso portati allo scontro. Delrio ha chiesto più volte a Richetti di ritirare la sua candidatura e di appoggiare Martina. I contatti tra i due sono tutt’ora in corso.
Il quinto a candidarsi al congresso è Francesco Boccia, 50 anni, pugliese, dal 2008 deputato del PD. Ha una formazione in economia e in passato ha trascorso diversi anni a insegnare in diverse facoltà; per due volte ha sfidato Nichi Vendola alle primarie regionali in Puglia, nel 2005 e nel 2010, e per due volte ha perso. È noto in particolare per la sua proposta della della “web tax”, un’imposta che vorrebbe obbligare le grandi società di internet a pagare in Italia una parte maggiore dei loro guadagni, e per la sua avversione ai progetti dell’ex ministro Carlo Calenda sull’ILVA. Come Richetti e Renzi anche lui proviene dalla Margherita – è stato a lungo uno dei più fedeli parlamentari “lettiani”, nel senso di Enrico Letta – ma nel tempo si è spostato su posizioni meno moderate. Oggi è un alleato del presidente della Puglia, Michele Emiliano, che al congresso del 2017 raccolse il 10 per cento dei voti. Uno dei principali punti che Boccia ed Emiliano hanno in comune è l’apertura politica al Movimento 5 Stelle.
Una candidatura non del tutto sicura è quella di Cesare Damiano, anche lui ex DS ed ex ministro del Lavoro nel secondo governo Prodi. Damiano ha 70 anni ed è stato a lungo dirigente sindacale della FIOM e della CGIL. In passato è stato molto critico nei confronti della segreteria di Matteo Renzi e ha chiesto spesso l’abolizione del Jobs Act e una diminuzione dell’età pensionabile introdotta dalla legge Fornero. Oggi presenta la sua candidatura come quella più “di sinistra” in campo, e dice di essere pronto a ritirarsi nel caso in cui Zingaretti prenda forti impegni di discontinuità con il passato più liberale del partito.
L’ultimo della lista è Dario Corallo, 30 anni, dirigente dei Giovani Democratici. La candidatura di Corallo è solitaria – nessuna delle principali correnti di partito lo appoggia – ed è impostata a una forte critica del partito per come è stato condotto negli ultimi anni. Corallo ha ottenuto particolare celebrità durante l’ultima assemblea del partito, quando ha utilizzato l’esempio del medico e scrittore Roberto Burioni per criticare i dirigenti del PD, attirandosi le critiche del medico e di gran parte dei dirigenti