di Andrea Rovere – È degli ultimi giorni la voce di una possibile acquisizione della Pernigotti da parte della Regione Piemonte.
Nello specifico, diverse testate hanno cominciato a scrivere che la Regione, attraverso la finanziaria Finpiemonte, verificherà “la possibilità di acquisire dalla Toksoz il marchio Pernigotti, i suoi brevetti e lo stabilimento di Novi Ligure”.
Voci alle quali si aggiungono da ultimo le dichiarazioni del Ministro dello Sviluppo Economico Di Maio in seguito all’incontro di ieri al MiSE, da cui si lascia intendere la ferma volontà dello stesso governo ad intervenire per far sì che la Pernigotti continui a produrre in Italia.
Ma se Di Maio pare onesto nei modi e nelle intenzioni, il che però ci dice poco o nulla circa quel che succederà, è anche vero che fra voci e dichiarazioni vi sia per ora solo fumo senza nemmeno l’odore dell’arrosto.
Anche perché, Regione o non Regione, Di Maio o non Di Maio, i Toksoz ieri a Roma non c’erano – hanno inviato legali e rappresentanti vari, ma non è la stessa cosa –, e questa assenza è senza dubbio un dato significativo.
Un dato che ci porta alla seguente domanda: vi è davvero da sperare per Novi e la sua antica azienda?
Con amarezza, noi diremmo di no, e per alcuni ovvi motivi.
Anzitutto, alla base di un contratto vi sono sempre due soggetti interessati a stipularlo. Si parla quindi di aprire un negoziato bilaterale, e non risulta attualmente che la Toksoz sia coinvolta in un simile processo, né tantomeno che sia disponibile a discuterne.
Non solo, ma se consideriamo l’eventualità di un’acquisizione operata da un ente pubblico come la Regione, la quale dovrebbe poi rivendere il tutto ad altro soggetto interessato allo sviluppo di un progetto imprenditoriale per rilanciare la produzione di Pernigotti sul territorio, ecco che i tasselli mancanti per stabilire la solidità delle basi di certe ipotesi aumentano.
In sintesi, qui non abbiamo ancora, né il venditore, né un’idea di quanti soldi occorrano per l’acquisizione, né tantomeno un soggetto terzo interessato ad investire in un ipotetico affare che la Regione si troverebbe a dover proporre – e a chi potrebbe proporlo, lo sa il Cielo.
E allora, di cosa stiamo parlando?
I tempi in cui l’Italia poteva vantare colossi di Stato in grado di operare acquisizioni importanti con l’obiettivo di risanare aziende e rilanciarle sul mercato, sono ahimè piuttosto lontani, e la realtà è che solo in un caso simile si potrebbe procedere agevolmente ad avviare operazioni che oggi, a parlarne, rimandano più a voli pindarici che a concrete pianificazioni.
Pensiamo ad esempio a quella che, negli anni ’60, alcuni definirono “la formula IRI”, su cui l’attenzione era massima all’estero specie da parte dei laburisti inglesi, i quali la ritenevano un esempio positivo di intervento dello Stato nell’economia, migliore della semplice nazionalizzazione in quanto permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato.
Ed è proprio in ragione di questo che ci chiediamo allora se non sia arrivato il momento di liberarsi dei tabù legati alla costituzione di simile ente, avvenuta in epoca fascista, per guardare alla sostanza di un organismo di sviluppo che specie nell’attuale congiuntura storica, sotto la guida di uno Stato consapevole del proprio ruolo e di manager illuminati, si rivelerebbe foriero di un possibile – benché da molti insperato – miracolo italiano del terzo millennio.
Ripensare la costituzione di un istituto dedito alla ricostruzione industriale in questo Paese è oggi una delle sfide più urgenti e grandiose per il futuro, e rappresenterebbe il segnale che nell’agone politico stia tornando a scorrere linfa vitale invece del solito fiume di chiacchiere.
Perché è con le chiacchiere che si ha purtroppo a che fare in questo momento, e gli operai della Pernigotti meritano sicuramente di più.
L’impressione è dunque che in assenza di quella visione strategica che durante la tanto vituperata Prima Repubblica si era ancora in grado di elaborare e perseguire, nonché di un piano articolato su più livelli attraverso il quale esercitare se non altro un potere contrattuale ad oggi inesistente, tutto sia destinato a risolversi in un buco nell’acqua, e che l’unico risultato certo fin da ora sia quello d’illudere decine di persone che avrebbero invece necessità di dati concreti, poiché è il loro futuro ad essere in gioco.
Ma nell’Italia del “diritticivilismo”, dove dei diritti sociali non s’interessa praticamente più nessuno, se non a parole – e nemmeno più di tanto –, persino le forme minime di rispetto dei lavoratori sembrano diventate merce rara.
E la delicatezza di evitare illusioni a chi si trova in difficoltà, a quanto pare, non fa eccezione.