da IlPost.it – Secondo una dettagliata inchiesta del quotidiano Le Monde, per la polizia francese è arrivato il momento di una profonda riforma. I suoi metodi non sono più adeguati ai tempi e le sue strategie portano troppo spesso gli agenti a entrare in conflitto con i cittadini, più che a difenderli. Risolvere il problema, però, non è facile. Ovunque le forze di polizia sono un’istituzione che tende a chiudersi in sé stessa e ad adottare un atteggiamento potenzialmente ostile alle richieste di moderazione e dialogo. Ma anche se difficile – sostiene Le Monde – è un obiettivo che va ugualmente perseguito per mantenere in salute la democrazia.
La riflessione sui metodi della polizia francese e sul suo eccessivo ricorso alla violenza è nata dal cosidetto “affaire Benalla“, dal nome dell’ex capo delle guardie del corpo del presidente francese Emmanuel Macron. Lo scandalo è iniziato lo scorso luglio, quando Le Monde ha scoperto che Alexandre Benalla, che è un civile e non un membro delle forze dell’ordine, aveva partecipato a una manifestazione indossando un casco della polizia ed era stato ripreso mentre trascinava a terra un manifestante.
Nella sua inchiesta, Le Monde ha notato come il filmato che riprendeva Bealla durante gli scontri fosse rimasto online su YouTube per due mesi prima che il quotidiano scoprisse chi era il protagonista. In questi due mesi nessuno si era domandato se il poliziotto ripreso (che si sarebbe scoperto successivamente non essere un poliziotto) non avesse esagerato e se le sue azioni fossero giustificate. Quando è stata ascoltata da una commissione parlamentare, la direttrice dell’Ispettorato generale della polizia, Marie-France Monéger-Guyomarc’h, ha giustificato la mancanza di azioni da parte del suo dipartimento. Il filmato, ha spiegato, mostrava un’azione “poco efficace” e “ruvida”, ma anche “legittima se a metterla in atto fosse stato un membro delle forze di polizia”.
Secondo Le Monde, però, il filmato e la risposta della direttrice dell’ispettorato mostrano che la violenza da parte della polizia è oramai “banalizzata”: ci si aspetta che in certi contesti gli agenti si comportino in maniera “ruvida” e questo non desta più scandalo. Il quotidiano cita un altro episodio che confermerebbe questa lettura. Nel febbraio 2017, una commissione d’inchiesta dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani pubblicò il suo rapporto su tre casi di sospetto “uso eccessivo della forza” da parte della polizia francese. In tutti e tre casi, le vittime erano giovani maschi di origine africana. Uno dei tre, Adama Traoré, fu ucciso mentre si trovava sotto custodia della polizia nel 2016. Un altro, Théo L., venne stuprato da alcuni poliziotti dopo un controllo. Secondo la commissione, questi tre episodi indicano un elevato livello di brutalità da parte della polizia e “non sono isolati”.
Il punto però non è solo la frequenza dei casi, se cioè siano isolati oppure frequenti. È importante anche capire se l’istituzione della polizia francese incentivi o scoraggi i comportamenti violenti. Molti ricercatori temono che il primo caso sia più probabile. Secondo Jérémie Gauthier, un ricercatore intervistato da Le Monde, per quanto riguarda le manifestazioni di piazza, la polizia francese ha adottato negli anni un atteggiamento esclusivamente repressivo. La strategia è quella di rimanere allerta durante la manifestazione restando pronti a intervenire con forza nel caso del minimo disordine. In Germania invece, sostiene Gauthier, la polizia collabora con gli organizzatori della manifestazione fin dal principio, cercando di prevenire eventuali incidenti, piuttosto che essere costretta a fronteggiarli.
Altri ricercatori notano come l’atteggiamento della polizia francese possa riassumersi in «contenere militarmente i gruppi violenti senza riflettere su altre possibili alternative». I rischi di questo atteggiamento, secondo Le Monde, sono evidenti. Lo scorso primo maggio, ad esempio, un gruppo di circa 1.200 black bloc ha provocato la polizia per poi rifugiarsi nel corteo principale che quindi è stato attaccato in massa dagli agenti, producendo gli incidenti nei quali è stato coinvolto tra gli altri anche Benalla, la guardia del corpo di Macron.
Un aspetto speculare e altrettanto problematico è quello del contrasto alla criminalità. Secondo Gauthier: «L’attività quotidiana della polizia è dominata dalla lotta anticrimine», che si esercita soprattutto tramite operazioni di pattuglia e controllo dell’identità, cioè fermando persone “sospette” e chiedendo loro i documenti. Questi controlli in Francia sono estremamente estesi e coinvolgono soprattutto la parte più povera ed emarginata della popolazione. Secondo un recente studio, l’80 per cento dei giovani neri e di origine araba residenti in Francia è stato controllato almeno una volta negli ultimi cinque anni. Chi abita nei quartieri poveri e disagiati rischia di venire fermato di continuo e lo stress di queste situazione spesso causa scontri e violenze, in alcuni casi molto gravi.
L’idea alla base di questa strategia è quella di far “percepire” la presenza della polizia all’interno di un quartiere difficile e scoraggiare così le attività criminali. Ma non ci sono prove che questo produca risultati positivi, anzi. Secondo uno studio pubblicato lo scorso gennaio sul British Journal of Criminology mostra che un aumento del 10 per cento dei controlli in un quartiere di Londra ha portato nei mesi successivi a una diminuzione dei crimini di appena lo 0,32 per cento (praticamente, un errore statistico). Studi simili compiuti a New York e Chicago mostrano conclusioni simili.
Le Monde indica un altro elemento problematico: la polizia è per sua natura un’istituzione corporativa, dove vige per definizione un istintivo rispetto per la gerarchia che può produrre casi di omertà e complicità poco opportuni. È un problema comune a moltissime forze di polizia che spinge gli agenti a reagire con ostilità alle critiche provenienti dall’esterno. Tra i poliziotti si sviluppano vincoli di solidarietà che possono avere effetti perversi quando producono incentivi a comportamenti scorretti e aiutano a proteggerne e nasconderne i colpevoli. Spesso gli agenti sentono di poter contare soltanto sui propri commilitoni, poiché non possono fidarsi dei politici e perché percepiscono la popolazione ostile al loro operato.
Le recriminazioni della polizia però non sono sempre infondate. Le Monde nota come con l’emergenza terrorismo, l’apparato statale abbia messo completamente sulle spalle della polizia il compito di fronteggiare questo nuovo pericolo, spesso senza fornirgli strumenti adeguati e senza condividere le responsabilità di eventuali fallimenti. Gli agenti quindi sentono il peso di dover “proteggere il paese”, ma si sentono soli e isolati nel farlo. In situazioni difficili, quindi, la loro tendenza è spesso quella di ricorrere a una forza eccessiva e fuori scala. Quando lo scorso aprile la polizia è stata inviata a sgomberare la ZAD, lo storico presidio di Notre-Dame-des-Landes, dove migliaia di persone erano accampate per impedire la costruzione di un aeroporto, sono state sparate oltre diecimila granate lacrimogene nel giro di pochi giorni: un uso della forza che a molti è apparso del tutto sproporzionato.
Come si risolve questa situazione è una domanda che non ha una risposta certa. Le Monde lo definisce un problema di portata “storica”: la polizia è ovunque un’istituzione che cerca costantemente autonomia e che chiede “mano libera” per risolvere i problemi a modo suo. Una democrazia sana, però, deve essere in grado di mettere un freno a queste richieste ed evitare di utilizzarle per i fini elettorali della classe politica. In Francia, sostiene il quotidiano, questo non è avvenuto e la volontà della polizia si è pericolosamente incrociata con gli interessi politici, producendo un’istituzione che spesso compie atti “discriminatori”, come dimostrano le statistiche sui controlli di cui sono oggetti i neri e le persone di origine araba, oltre che gli episodi di violenza spesso molto gravi.
Nella storia recente, però, esistono anche esempi positivi che si possono seguire e imitare. Secondo Hélène L’Heuillet, professoressa di filosofia ed etica all’Università Sorbona, alcuni di questi esempi si possono trovare anche nella storia francese. Il suo modello è Maurice Grimaud, il prefetto della polizia di Parigi, che nel 1968 gestì con abilità il “ritorno alla calma” della città dopo il maggio del 1968, uno dei periodi più turbolenti della recente storia francese. Grimaud impose la sua autorità alla polizia cittadina esigendo da parte degli agenti moderazione e un dialogo continuo con i manifestanti. Se gli esempi non mancano, i prossimi anni riveleranno se esiste anche la volontà politica di seguirli.