Non ci tolgono tutto in una volta. No. Darebbe nell’occhio, e tutti capirebbero la gravità della situazione. Ci tolgono invece un diritto alla volta, un pezzo dopo l’altro, con lenta e solerte continuità. E passo dopo passo ci fanno arretrare di chilometri e chilometri: ci tolgono lentamente tutto quel che ci eravamo conquistati. Ci troviamo, così, nel bel mezzo di un nuovo Medioevo. Ecco raccontata la storia dal 1989 ad oggi, in due parole. Un processo evidente, per chi voglia vederlo, di sottrazione: sottrazione di diritti sociali e del lavoro, di sovranità democratica popolare, di indipendenza politica e di autonomia dell’impresa italiana, di sovranità monetaria e culturale. L’ho detto e lo ridico: i cinici esponenti dell’élite neofeudale sradicata e apolide, nemica dei diritti e delle sovranità, ci stanno togliendo tutto. E hanno la sfacciataggine di chiamare “riforme” tali sottrazioni coatte. È la neolingua, dovremmo ormai saperlo: la quale rovescia i nomi per nascondere i rapporti rovesciati di un mondo esso stesso capovolto. Qual è la soluzione? Non è difficile. Dobbiamo ripartire da una teoria rivoluzionaria, inaccessibile all’élite egemonica mondialista: non v’è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria. Il guaio è che oggi le teorie che si professano rivoluzionarie sono compatibili con quelle dell’élite: sono anzi fatte su misura da essa, che gestisce anche ad usum sui i flussi del dissenso. Di qui l’esigenza di ricategorizzare la realtà: e di tornare a chiamare le cose con i loro nomi. Sfruttamento, barbarie, alienazione, desovranizzazione: ecco alcune delle parole che debbono tornare a brillare e a conferire luce all’indocilità ragionata, a partire dalla nazione come luogo di organizzazione dei diritti e delle rivendicazioni in nome dell’emancipazione del popolo mediante l’unione dell’impresa e dei lavoratori, delle menti e dei cuori. “Il punto di partenza è nazionale”: così scriveva Antonio Gramsci. E così deve tornare oggi a essere, in nome di un internazionalismo vero, basato sul nesso inter nationes, tra Stati sovrani nazionali, democratici e fratelli, fondati sul lavoro e non sullo sfruttamento, sulle identità plurime e non sull’anonimato seriale del consumo. Riprendiamoci tutto, dunque: a partire dalla nostra lingua nazionale, la lingua che fu di Dante e di Vico, di Machiavelli e di Gioberti, di Gramsci e di Gentile. Un popolo senza identità e cultura è un popolo senza passato e senza futuro. Non lasciamo la nazione ai nazionalismi, che sono poi l’altra faccia del mondialismo: il nazionalismo si compie nel mondialismo come sopravvivenza di un’unica nazione e dissoluzione di tutte le altre. Occorre, invece, valorizzare le pluralità nazionali.