Lucca (da Il Fatto Quoìtidiano) – Gli imputati sono 33, ma gli occhi sono solo su di lui. Perché condannare in primo grado Mauro Moretti a sette anni per disastro colposo, incendio colposo, omicidio plurimo colposo e lesioni gravissime, equivale a condannare un pezzo di Stato, che per i giudici del tribunale di Lucca è corresponsabile di una strage, non di “uno spiacevolissimo episodio”. L’impianto dell’accusa alla fine ha retto. E non solo. Perché la sentenza dell’ex ad di Rfi e di Ferrovie simboleggia il riscatto per tutto quello che avvenne quella sera e nei successivi otto anni. Per la bomba che corre veloce sulle rotaie d’acciaio. La strada rasa al suolo. I palazzi crollati. Il fuoco che entra casa per casa, di notte, e come i mostri degli incubi si porta via Emanuela Menichetti, 21 anni, e Sara Orsi, 23, mentre giocano a carte. Per Lorenzo Piagentini di 2 anni, il fratello Luca, 4, e la loro mamma Stefania, 39. Le cicatrici sulla faccia di papà Marco e del piccolo Leonardo. Per l’intera famiglia Ayad, sterminata. Hamza, 16 anni, che muore per cercare di salvare la sorellina Iman, di 3. Mario Pucci, 90 anni. E per tutti gli altri. Per la rabbia e la tenacia delle famiglie che da quel giorno chiedono più sicurezza per il trasporto merci su rotaie. Un processo lungo, difficile, a volte dimenticato. Per i fischi dei treni che ogni 29 giugno passano dalla stazione: sono l’omaggio dei ferrovieri alla memoria dei morti. Poi per l’orgoglio di Viareggio, che dopo essere stata sfregiata dalle fiamme è stata costretta ad assistere alla folgorante carriera del principale imputato, che come altri, non ha presenziato a una sola delle 140 udienze celebrate al Polo Fieristico di Lucca. E non ha mai speso una parola in più del cordoglio di rito.
Ma di lui i viareggini ricordano solo le parole pronunciate il giorno dopo la strage, quando arriva in Comune dichiarando che Ferrovie non aveva nessuna responsabilità e per questo l’assicurazione non avrebbe sborsato un euro. E poi quelle del 3 luglio, quattro giorni dopo l’inferno di via Ponchielli, la via distrutta dal Gpl fuoriuscito dalla cisterna dopo il deragliamento del convoglio. Quando Moretti è chiamato in audizione al Senato per riferire del disastro. Dice: “Vi prego di considerare che quest’anno, per la sicurezza – a parte questo spiacevolissimo episodio di Viareggio – abbiamo ulteriormente migliorato: siamo i primi in Europa”. Trentadue morti considerati uno “spiacevolissimo episodio” spuntato all’improvviso in un piano perfetto.
L’associazione dei parenti delle vittime chiede le sue dimissioni. Si appella alla politica, alla coscienza dell’interessato. Lo fa dal giorno della strage perché lo ritiene responsabile e colpevole di aver tagliato fondi alla sicurezza per incrementare il profitto. Ma lo fa inutilmente. Perché Davide si scontra con Golia, come è accaduto per altre stragi quando lo Stato è stato chiamato a rispondere. Le istituzioni ignorano i familiari che corrono da una parte all’altra dell’Italia chiedendo di essere ascoltati, mentre l’amministratore delegato non viene mai sfiorato dall’idea di lasciare la poltrona che occupa dal 2006, forte della stima che gode agli occhi della politica a cui ha fatto il bel regalo di rimettere in sesto i conti del carrozzone Ferrovie.
Le istituzioni vedono in Moretti un esempio virtuoso. Tanto che il 31 maggio 2010, a neppure un mese dal primo anniversario della strage, Viareggio e i familiari dei 32 morti ricevono un altro schiaffo. L’ex sindacalista diventato manager sale al Quirinale per essere nominato Cavaliere del Lavoro da Giorgio Napolitano, lo stesso presidente della Repubblica che il 7 luglio 2009 venne in città a piangere le vittime durante i funerali di Stato celebrati allo stadio. Daniela Rombi, mamma di Emanuela – 21 anni, morta dopo 42 giorni di agonia – rappresenta i familiari e scrive una lettera al capo dello Stato: “Sicuramente la decisione non è stata Sua, sarà stato proposto da altri perché il signor Moretti ha fatto bene il suo lavoro, perché ha risanato i bilanci delle Ferrovie dello Stato (dello Stato!), ma sappia che quei bilanci sono stati risanati anche col sangue dei nostri cari perché si è scelto di tagliare, di risparmiare sulla sicurezza”. Rombi chiede di essere ricevuta insieme agli altri familiari. Ma Napolitano non accoglierà mai quella supplica nell’arco dei suoi due mandati. Lo farà solo il suo successore Sergio Mattarella, nel settembre 2015.
Intanto Moretti naviga a gonfie vele, il vento non ha mai smesso di soffiare. Da sindacalista scala tutti i vertici fino a diventare segretario nazionale della Cgil Trasporti, incarico ricoperto dall’86 al ’91. In azienda entra nel’77, subito dopo la laurea, vincendo il concorso per i ruoli direttivi dell’allora Azienda Autonoma Ferrovie dello Stato. Da qui inizia l’ascesa. Adesso è uno dei manager di Stato intoccabili. Da indagato viene confermato dal governo Berlusconi. Da imputato viene tenuto dal governo Letta. Mentre il processo va verso la conclusione viene promosso, con aumento di stipendio, alla guida di Leonardo-Finmeccanica dal governo Renzi. L’esecutivo al suo posto nomina Michele Mario Elia, oggi condannato a 7 anni e mezzo e attualmente country manager al Tap per l’Italia.
I familiari scrivono anche al premier “rottamatore”. Vogliono un confronto per cambiare la legge e scongiurare il rischio prescrizione per il reato di incendio colposo. Ma l’appello alle istituzioni cade nuovamente nel vuoto. Anche nel giorno in cui i pm di Lucca, Giuseppe Amodeo e Salvatore Giannino, chiedono che Moretti venga condannato a 16 anni (richiesta che il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio non si attarda a definire sproporzionata), i familiari subiscono l’ennesima umiliazione: il numero uno di Leonardo sale nuovamente al Quirinale, questa volta per ricevere il più prestigioso premio italiano per l’innovazione.
Oggi, invece, ha ricevuto la condanna a sette anni per reati commessi quando era ex amministratore delegato di Rfi. “Ci devono spiegare come siamo passati dalla richiesta di 16 anni di carcere a 7 anni”, si chiede Daniela Rombi. Ma intanto i familiari dei morti sperano che in appello le sentenze a lui e agli altri vertici di Ferrovie reggano. Anche se c’è da fare i conti con la prescrizione, che si appresta ad abbattersi su alcuni reati come l’incendio colposo e le lesioni colpose. Si spera e si tiene duro. Non c’è molto altro da fare, dicono. “Tanto abbiamo già perso tutto quella notte”.