All’inizio la merce ci si è presentata come qualcosa di duplice, valore d’uso e valore di scambio. In un secondo tempo s’è visto che anche il lavoro, in quanto espresso nel valore, non possiede più le stesse caratteristiche che gli sono proprie come generatore di valori d’uso. Tale duplice natura del lavoro contenuto nella merce è stata dimostrata criticamente da me per la prima volta. E poiché questo punto è il perno sul quale muove la comprensione dell’economia politica, occorre esaminarlo più da vicino.
Prendiamo due merci, per esempio 1 abito e 10 mt di tela. Abbia il primo valore doppio di queste ultime, cosicché, se poniamo:
10 m di tela = V,
n 1 abito = 2 V.
Il lavoro utile
L’abito è un valore d’uso che soddisfa un bisogno particolare. Per produrlo, occorre un determinato genere di attività produttiva, che è determinata dal suo fine, dal suo modo di operare, dal suo oggetto, dai suoi mezzi e dal suo risultato. Chiamiamo senz’altro lavoro utile il lavoro che si presenta in tal modo nel valore d’uso del suo prodotto o nel fatto che il suo prodotto è un valore d’uso. Da questo punto di vista il lavoro viene sempre considerato in rapporto al suo effetto utile.
Allo stesso modo che abito e tela sono valori d’uso qualitativamente differenti, i lavori che ne procurano l’esistenza, sartoria e tessitura, sono anch’essi qualitativamente differenti. Se quelle cose non fossero valori d’uso qualitativamente differenti e quindi prodotti di lavori qualitativamente differenti, non potrebbero in nessun modo stare a confronto l’una con l’altra come merci. Un abito non si scambia con un abito, lo stesso valore d’uso non si scambia con lo stesso valore d’uso.
Nell’insieme dei diversi valori d’uso o corpi di merci si presenta un insieme di lavori utili altrettanto differenti secondo la specie, il genere, la famiglia, la sottospecie, la varietà: una divisione sociale del lavoro. Essa è condizione d’esistenza della produzione delle merci, benché la produzione delle merci non sia inversamente condizione d’esistenza della divisione sociale del lavoro. Nell’antica comunità indiana il lavoro è diviso socialmente senza che i prodotti diventino merci. Oppure, esempio a noi più vicino, in ogni fabbrica il lavoro è diviso sistematicamente, ma questa divisione non è derivata da uno scambio dei prodotti individuali fra un operaio e l’altro. Solo prodotti di lavori privati autonomi e indipendenti l’uno dall’altro stanno a confronto l’un con l’altro come merci.
Dunque si è visto: nel valore d’uso di ogni merce c’è una determinata attività, produttiva e conforme a un fine, cioè lavoro utile. Valori d’uso non possono stare a confronto l’uno con l’altro come merci se non ci sono in essi lavori utili qualitativamente differenti. In una società i cui prodotti assumono in generale la forma della merce, cioè in una società di produttori di merci, tale differenza qualitativa dei lavori utili che vengono compiuti l’uno indipendentemente dall’altro come affari privati di produttori autonomi, si sviluppa in un sistema pluriarticolato, in una divisione sociale del lavoro.
Differenze quantitative e qualitative
Del resto, per l’abito è indifferente esser portato dal sarto o dal cliente del sarto: esso opera come valore d’uso nell’un caso come nell’altro. Né il rapporto fra l’abito e il lavoro che lo produce è certo cambiato, preso in sé e per sé, per il fatto che la sartoria diventi professione particolare, articolazione autonoma della divisione sociale del lavoro. Dove e quando è stato costretto dal bisogno di coprirsi, l’uomo ha tagliato e cucito per millenni, prima che un uomo divenisse sarto. Ma l’esistenza dell’abito, della tela, di ogni elemento della ricchezza materiale non presente nella natura, ha sempre dovuto essere procurata mediante un’attività speciale, produttiva in conformità a uno scopo, che assimilasse particolari materiali naturali a particolari bisogni umani. Quindi il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini.
I valori d’uso abito, tela, ecc., in breve i corpi delle merci, sono combinazioni di due elementi, materia naturale e lavoro. Se si detrae la somma complessiva di tutti i vari lavori utili contenuti nell’abito, nella tela, ecc., rimane sempre un substrato materiale, che è dato per natura, senza contributo dell’uomo. Il procedimento dell’uomo nella sua produzione può essere soltanto quello stesso della natura: cioè semplice cambiamento delle forme dei materiali. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce, della ricchezza materiale. Come dice William Petty, il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre.
Il valore della merce
Passiamo ora dalla merce in quanto oggetto d’uso al valore della merce.
Secondo la nostra ipotesi l’abito ha valore doppio della tela. Ma questa è soltanto una differenza quantitativa che in un primo momento non ci interessa ancora. Ricordiamo perciò che, se il valore di un abito è il doppio del valore di dieci metri di tela, venti metri di tela hanno la stessa grandezza di valore di un abito. Come valori, abito e tela sono cose di sostanza identica, espressioni oggettive di lavoro dello stesso genere. Ma sartoria e tessitura sono lavori qualitativamente differenti. Ci sono tuttavia situazioni della società nelle quali lo stesso uomo tesse e alternativamente taglia e cuce, e quindi questi due differenti generi di lavoro sono soltanto modificazioni del lavoro dello stesso individuo e non sono ancora funzioni particolari, fisse di individui differenti, proprio come l’abito che il nostro sarto ci fa oggi e i calzoni che ci fa domani presuppongono solo variazioni dello stesso lavoro individuale. L’evidenza ci insegna inoltre che nella nostra società capitalistica, a seconda del variare della domanda di lavoro, una porzione data di lavoro umano viene fornita alternativamente nella forma di sartoria o in quella di tessitura. Queste trasformazioni del lavoro può darsi che non avvengano senza attrito, ma devono avvenire. Se si fa astrazione dalla determinatezza dell’attività produttiva e quindi dal carattere utile del lavoro, rimane in questo il fatto che è un dispendio di forza-lavoro umana. Sartoria e tessitura, benché siano attività produttive qualitativamente differenti, sono entrambe dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani, ecc. umani: ed in questo senso sono entrambe lavoro umano. Sono soltanto due forme differenti di spendere forza-lavoro umana. Certamente, la forza-lavoro umana deve essere più o meno sviluppata per essere spesa in questa o in quella forma. Ma il valore della merce rappresenta lavoro umano in astratto, dispendio di lavoro umano in generale. Ora, come nella società civile un generale o un banchiere rappresentano una parte importante e l’uomo senz’altro nome all’incontro vi rappresenta una parte molto misera, allo stesso modo vanno le cose per il lavoro umano. Esso è dispendio di quella semplice forza-lavoro che ogni uomo comune possiede in media nel suo organismo fisico, senza particolare sviluppo. Certo, col variare dei paesi e delle epoche della civiltà anche il lavoro medio semplice varia il proprio carattere, ma in una società data è dato. Un lavoro più complesso vale soltanto come lavoro semplice potenziato o piuttosto moltiplicato, cosicché una quantità minore di lavoro complesso è eguale a una quantità maggiore di lavoro semplice. L’esperienza insegna che questa riduzione avviene costantemente. Una merce può essere il prodotto del lavoro più complesso di tutti, ma il suo valore la equipara al prodotto di lavoro semplice e rappresenta quindi soltanto una determinata quantità di lavoro semplice. Le varie proporzioni nelle quali differenti generi di lavoro sono ridotti a lavoro semplice come loro unità di misura, vengono stabilite mediante un processo sociale estraneo ai produttori, e quindi appaiono a questi ultimi date dalla tradizione. Per ragioni di semplicità, d’ora in poi ogni genere di forza-lavoro varrà immediatamente per noi come forza-lavoro semplice, con il che ci si risparmia solo la fatica della riduzione.
Come dunque nei valori abito e tela si è astratto dalla differenza dei loro valori d’uso, altrettanto si astrae per i lavori che si rappresentano in quei valori dalla differenza fra le loro forme utili, sartoria e tessitura. Come i valori d’uso abito e tela sono combinazioni fra attività produttive e determinate da uno scopo da una parte e panno e filo dall’altra, e a loro volta invece i valori abito e tela sono soltanto cristallizzazioni omogenee di lavoro, allo stesso modo anche i lavori contenuti in questi valori contano non per il loro rapporto produttivo col panno e col filo, ma soltanto come dispendi di forza-lavoro umana. Sartoria e tessitura sono elementi costitutivi dei valori d’uso abito e tela proprio per le loro differenti qualità: ma esse sono sostanza del valore dell’abito e del valore della tela solamente in quanto si astrae dalla loro qualità particolare e in quanto entrambi posseggono la stessa qualità, la qualità d’esser lavoro umano.
Ma abito e tela non sono soltanto valori in genere, bensì valori di una determinata grandezza; e secondo la nostra ipotesi l’abito ha valore doppio di dieci metri di tela. Di dove viene questa differenza fra le loro due grandezze di valore? Dal fatto che la tela contiene soltanto la metà del lavoro dell’abito, cosicché per la produzione di quest’ultimo la forza-lavoro deve essere spesa durante un tempo doppio di quello occorrente per la produzione della tela.
Il valore del lavoro
Se dunque riguardo al valore d’uso il lavoro contenuto nella merce conta solo qualitativamente, riguardo alla grandezza del valore conta solo quantitativamente, dopo essere stato già ridotto a lavoro umano senza ulteriore qualificazione. Là si tratta del come e del cosa del lavoro, qui del quanto di esso, della sua durata temporale. Poiché la grandezza del valore di una merce rappresenta soltanto la quantità del lavoro in essa contenuta, le merci debbono sempre essere, in una certa proporzione, valori d’eguale grandezza.
Se la forza produttiva, diciamo, di tutti i lavori utili richiesti per la produzione di un abito, rimane immutata, la grandezza di valore degli abiti cresce col crescere della loro quantità. Se 1 abito rappresenta x giornate lavorative, 2 abiti rappresentano 2 x giornate lavorative, ecc. Ma ammettiamo che il lavoro necessario alla produzione di un abito cresca del doppio o diminuisca della metà. Nel primo caso un abito ha altrettanto valore quanto in precedenza ne avevano due, nel secondo caso due abiti hanno tanto valore quanto in precedenza ne aveva uno, benché nell’uno e nell’altro caso un abito renda prima e dopo gli stessi servizi e il lavoro utile contenuto in esso rimanga prima e dopo della stessa bontà. Ma si è cambiata la quantità dei lavoro spesa nella sua produzione.
Una quantità maggiore di valore d’uso costituisce in sé e per sé una maggiore ricchezza di materiale, due abiti sono più di uno. Con due abiti si possono vestire due uomini, con un abito se ne può vestire uno solo, ecc. Eppure alla massa crescente della ricchezza di materiali può corrispondere una caduta contemporanea della sua grandezza di valore. Questo movimento antagonistico sorge dal carattere duplice del lavoro. Naturalmente forza produttiva è sempre forza produttiva di lavoro utile, concreto, e di fatto determina soltanto il grado di efficacia di una attività produttiva conforme a uno scopo in un dato spazio di tempo. Quindi il lavoro utile diventa fonte più abbondante o più scarsa di prodotti in rapporto diretto con l’aumento o con la diminuzione della sua forza produttiva. Invece, un cambiamento della forza produttiva non tocca affatto il lavoro rappresentato nel valore preso in sé e per sé. Poiché la forza produttiva appartiene alla forma utile e concreta del lavoro, non può naturalmente più toccare il lavoro, appena si fa astrazione dalla sua forma concreta e utile. Quindi lavoro identico rende sempre, in spazi di tempo identici, grandezza identica di valore, qualunque possa essere la variazione della forza produttiva. Ma esso fornisce nello stesso periodo di tempo quantità differenti di valori d’uso: in più quando la forza produttiva cresce, in meno quando cala. Dunque quella stessa variazione della forza produttiva che aumenta la fecondità del lavoro e quindi la massa dei valori d’uso da esso fornita, diminuisce la grandezza di valore di questa massa complessiva aumentata, quando accorcia il totale del tempo di lavoro necessario alla produzione di quella massa stessa. E viceversa.
Da una parte, ogni lavoro è dispendio di forza-lavoro umana in senso fisiologico, e in tale qualità di lavoro umano eguale o astrattamente umano esso costituisce il valore delle merci. Dall’altra parte, ogni lavoro è dispendio di forza-lavoro umana in forma specifica e definita dal suo scopo, e in tale qualità di lavoro concreto utile esso produce valori d’uso.
N.B.: In alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata ponendovi a fianco un apice. La valuta è aggiornata in Euro.