Lo Stato d’Italia è un triangolo scaleno: lati ed angoli squilibrati. Non fu mai un triangolo equilatero. In passato era isoscele. Non era la perfezione, ma aspirava a divenirlo. Lo scaleno è funesto. Per raddrizzarlo ci vogliono ben altro che promesse e improvvisazioni. Occorrono senso dello Stato e cultura. Che sono come il coraggio di cui scrisse Manzoni a proposito di don Abbondio: a chi non l’ha nessuno può prestarla. La crisi attuale è il punto di arrivo di una china che merita di essere ripercorsa, ricordando il motto antico motus in fine velocior. Una settantina d’anni orsono, la Repubblica mirò a ribaltare il rapporto di potere tra l’esecutivo (Capo dello Stato e governo) e il legislativo (il Parlamento), a tutto vantaggio del secondo. Demolita la monarchia, il regime repubblicano ha reso più efficiente lo Stato? Per rispondere occorre confrontare sinteticamente lo Statuto albertino (all’epoca vigente, ma ripetutamente vulnerato dal 25 giugno 1944) con la Costituzione in vigore dal 1° gennaio 1948.
Lo Statuto dedicò i primi 23 articoli al re e alla monarchia, altri 31 alle Camere e ai ministri appena tre articoli, nei quali il termine governo non compare. Il re nomina(va) e revoca(va) i suoi ministri, privi di diritto di voto in Parlamento e responsabili. Nei decenni seguenti il governo monarchico rappresentativo, formato dal re (depositario del potere esecutivo, esercitato tramite i ministri) e da due Camere, lentamente divenne parlamentare, non perché il parlamento prevalesse ma perché il governo convenne che doveva averne la fiducia.
Sin da Cavour (1852-1861) il consiglio dei ministri puntò infatti al consenso della Camera elettiva per bilanciare la preminenza del sovrano. I verbali del consiglio dei ministri (pubblicati a cura di Marco Bertoncini e Aldo G. Ricci nella collana Libro Aperto diretta da Antonio Patuelli) documentano il continuo braccio di ferro tra Cavour e il re che,volendolo, presenziava alle sedute dei suoi ministri. Non sempre chi veniva incaricato di formare il ministero ne assumeva la presidenza: era il tramite fra il sovrano e gruppi parlamentari (del tutto informali), in un regime che comunque non obbligava alle dimissioni in caso di voto contrario o di maggioranza risicata. Rimase celebre lo sferzante commento di Giovanni Giolitti quando al Senato il suo primo ministero passò per tre voti di scarto: due più del necessario, sibilò. Aveva in tasca lo scioglimento della Camera, in carica da appena due anni, e nuove elezioni.
Per rafforzarsi verso il Parlamento e la Corona i presidenti del consiglio tennero per sé portafogli di peso. Su quel terreno Destra e Sinistra storica ebbero condotta uniforme. Nel primo governo del regno d’Italia (1861) Cavour volle Esteri e Marina. Il suo successore, Bettino Ricasoli, aggiunse Interno e Guerra; Minghetti tenne le Finanze; La Marmora gli Esteri e la Marina; Rattazzi l’Interno, e via continuando. Il primo presidente di Sinistra, Agostino Depretis, fu ministro delle Finanze ed ebbe l’interim dei Lavori pubblici. Nel secondo governo aggiunse gli Esteri, dopo le dimissioni di Crispi, come poi nel suo terzo ministero.
Nel primo governo composto anche da sottosegretari, quando subentrò a Depretis (morto il 29 luglio 1889) Crispi tenne Esteri e Interno. Il suo successore, Rudinì, si accontentò degli Esteri. Giolitti, invece, volle sempre l’Interno che gli serviva per fare e disfare le maggioranze parlamentari, con infornate di senatori e alchimie elettorali. Alcuni studiosi stranieri (come l’inglese Denis Mack Smith, applaudito da autori nostrani digiuni di diritto pubblico) parlarono di “dittatura”, trascurando che altrettanto avveniva in Gran Bretagna e negli altri Paesi ove i governi miravano ad arginare col Parlamento lo straripante potere della Corona.
Il primo presidente senza portafogli ministeriali fu il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli (15 febbraio 1901- 3 novembre 1903). Oggetto di vari studi, soprattutto di Roberto Chiarini, ma tuttora privo di una biografia organica, compensò con molti discorsi il modesto peso politico effettivo. Corrivo ad “annunciare”, nel 1902 fece annunciare nel Discorso della Corona l’introduzione del divorzio, suscitando la protesta del Vaticano. Contrario a sfidare i clericali mentre ben altro premeva, Giolitti si dimise da ministro dell’Interno. A suo avviso l’esecutivo e la Corona non potevano contrapporsi al Paese, i cui umori venivano sondati attraverso prefetture e questure.
Gli orientamenti dei cittadini divennero il metro del governo sino al 1914-1915, quando invece con un colpo di Stato, il ministero Salandra-Sonnino gettò l’Italia nella fornace della Grande Guerra, sulla base del Patto di Londra del 26 aprile 1915, conosciuto solo dal re, da un terzo dei quattordici ministri e da alcuni uomini della Corona, ma ignoto al Paese e al Parlamento. Il resto andò di conseguenza. Nel 1922 Mussolini formò un governo di coalizione nazionale. Tenne Esteri e Interno ma, conoscendosi, volle a fianco talenti di prim’ordine: Giovanni Gentile, Alberto De Stefani, Luigi Federzoni, Giovanni Colonna di Cesarò… Il re gli impose Armando Diaz e Thaon de Revel, dioscuri della Vittoria.
Tre anni dopo, mentre l’opposizione si arroccava fuori dell’Aula (lo stolto Aventino), Mussolini ottenne la legge 24 dicembre 1925, n.2263 su Attribuzioni e prerogative del Capo del governo, che stabilì: “Il potere esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo (…) Il primo ministro è capo del governo (…) Dirige e coordina l’opera dei ministri (…)”: molto più di quanto stabilito dal Regio decreto del 14 novembre 1901. Le offese al Capo del governo con parole o atti furono punite con la reclusione o detenzione da sei a trenta mesi e la multa da 500 a 3000 lire. Sbaragliati gli altri partiti, con quella legge Mussolini mirò soprattutto a imbrigliare le turbolenze all’ interno dello stesso Partito nazionale fascista. Però, più forte rispetto ai ministri e alle Camere, neppure Mussolini intaccò davvero il potere della Corona.
Dopo le dimissioni imposte con fermezza a Mussolini da Vittorio Emanuele III il 25 luglio 1943 e l’avvento di Pietro Badoglio (in forma irrituale, come ricorda Elio Lodolini in un saggio del 1953, aggiornato e candidato di pregio al Premio Acqui Storia), i partiti, per decenni vissuti come lucciole nelle tenebre, mirarono ad assumere il controllo totale del potere: esecutivo, legislativo e ordine giudiziario. Quest’ultima fu una partita facile. Nei governi Badoglio, che gettarono le basi dell’epurazione, i ministri della Giustizia dovevano far scordare il loro passato: Gaetano Azzariti, già presidente del tribunale della razza, ed Ettore Casati, che non arrivò dalla Luna ma da primo presidente della Corte suprema di cassazione.
Per soggiogare l’esecutivo i partiti spararono ad alzo zero contro Vittorio Emanuele III, costretto a trasferire tutti i poteri al Luogotenente e impedito di rientrare in Roma, sino a quando, dopo l’abdicazione del 9 maggio 1946, partì per Alessandria d’Egitto, ove tuttora giace. Perdurando la guerra, sin dal 22 aprile 1944 i cinque partiti che formavano il governo imposero altrettanti ministri senza portafoglio a guardia del presidente Badoglio. Anziché di essere fedeli al re, essi giurarono sul loro onore che non avrebbero interferito sulle futura scelta della forma dello Stato. Ivanoe Bonomi, per quel che valevano, tenne per sé Esteri e Interno, ma rimase sotto la ringhiosa vigilanza di sette ministri senza portafoglio (sei dell’esarchia formante il Comitato di liberazione nazionale e Carlo Sforza, che rappresentava…se stesso). Nel governo seguente Bonomi non ebbe alcun ministero. Altrettanto fece Ferruccio Parri, primo presidente del dopoguerra. Il suo successore, il democristiano Alcide De Gasperi, tenne gli Esteri per traghettare l’Italia, sconfitta e sotto tutela dei vincitori, dalla monarchia statutaria alla repubblica parlamentare.
La Costituzione ora vigente relega il Governo agli articoli 92-96, dopo Camere, formazione delle leggi e presidente della repubblica. Il presidente del consiglio dei ministri mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuove e coordina l’attività dei ministri, ma non ne è il capo. Propone i ministri, ma, come dicono le cronache, a volte deve assecondare un Potere più alto. Nel primo decennio repubblicano (1948-1953) i presidenti del Consiglio ebbero un vice e, con qualche eccezione, tennero per sé gli Esteri (De Gasperi, Pella e Fanfani). Dal primo governo di Ferdinando Tambroni (1960) il presidente non ebbe più portafogli. Declinò a mediatore tra segreterie dei partiti (presenti nell’esecutivo con propri esponenti o disposti a sostenerlo con formule cangianti e bizzarre) e presidenti della Repubblica. Si susseguirono monocolori (a volte balneari), bicolori, tricolori, governi della non sfiducia… Oggi non va molto meglio. Il governo boccheggia tra un voto di fiducia e l’altro, sorretto dalla stampella dei senatori vitalizi.
La storia degli ultimi decenni ha registrato la crescente divaricazione tra i partiti e i loro esponenti al governo, cioè tra collettori del consenso e Stato: un processo corrosivo e degradante, aggravato dalla polverizzazione del potere centrale con l’avvento delle Regioni e la moltiplicazione di enti dai profili labili ma voraci. Da un quarto di secolo la consultazione dei cittadini è risultata sempre meno gratificante per i governi. Il 6 aprile 1992 i due principali partiti strapparono l’ultimo risultato a favore della stabilità: la Democrazia Cristiana ebbe il 30% dei suffragi e 206 seggi; il Partito comunista il 16% e un centinaio di deputati.
Era l’invocazione di chi temeva l’implosione del sistema. Dal 1994-1996 l’esecutivo trasse poca gioia dall’urna. I risultati furono sempre meno prevedibili e quindi sempre meno determinanti per la formazione dei ministeri, frutto di coalizioni non preannunciate agli elettori o a geometria variabile come quello ora in carica: esso ha cambiato presidente per decisione interna di un suo componente, senza mutare maggioranza e si fonda su un consenso presunto, con crescenti margini di fragilità. Di lì la tentazione, in parte attuata anche senza certificazione costituzionale, di cancellare il diritto di voto: un’incognita per lui terrificante, soprattutto in presenza del 40-50% di astensioni.
È il caso delle Province, le cui amministrazioni non sono più elette dai cittadini, e della Camera Alta (la cui riforma, però, per ora è stata approvata solo dal Senato: caso curioso di suicidio di un Organo dello Stato). Ma prima o poi alle urne si dovrà pur tornare. E lì si vedrà se a ottenere il consenso del Paese basta il controllo di una porzione di un partito e spacciare il favore del 22% degli aventi diritto al voto, cioè la quota ottenuta dal Partito democratico nelle elezioni degli eurodeputati lo scorso maggio, come fosse davvero il 41% degli elettori: in linea col trucco del 18 giugno 1946 quando la Corte suprema di cassazione a maggioranza stabilì che per votanti s’intendessero solo i voti validi.
Ogni raffronto tra il presidente del consiglio attuale con il passato remoto è comunque del tutto infondato: Cavour, Crispi, Giolitti, lo stesso Mussolini ressero perché erano ministri del re. Oggi il presidente della repubblica, eletto dal parlamento, nomina il presidente del Consiglio, il cui governo, però, deve avere la fiducia delle due Camere elettive (art.94). Ed è lì, nel combinato caotico tra capo di Stato elettivo, elettorato ondivago e parlamento incontrollabile (come dimostra la vicenda della mancata elezione di due giudici della Corte Costituzionale), che s’infrangono i sogni di gloria di chissà quali riforme, di un fare che si esaurisce in quotidiani avventati discorsi della corona del presidente del consiglio: senza troni né altari, solo poltrone e altarini che è meglio non scoprire.
La riforma delle riforme riguarda la forma dello Stato: da scaleno qual è farne un triangolo equilatero. «Da qualunque parte lo si guardi – scrisse Luciano Violante nel 1992 – , il problema italiano sembra irresolubile senza un cambiamento istituzionale. (…) Ma la via della riforma non è ricoperta di petali di rose e non è scontato che la riforma sarà democratica». Appunto.
Lo Statuto dedicò i primi 23 articoli al re e alla monarchia, altri 31 alle Camere e ai ministri appena tre articoli, nei quali il termine governo non compare. Il re nomina(va) e revoca(va) i suoi ministri, privi di diritto di voto in Parlamento e responsabili. Nei decenni seguenti il governo monarchico rappresentativo, formato dal re (depositario del potere esecutivo, esercitato tramite i ministri) e da due Camere, lentamente divenne parlamentare, non perché il parlamento prevalesse ma perché il governo convenne che doveva averne la fiducia.
Sin da Cavour (1852-1861) il consiglio dei ministri puntò infatti al consenso della Camera elettiva per bilanciare la preminenza del sovrano. I verbali del consiglio dei ministri (pubblicati a cura di Marco Bertoncini e Aldo G. Ricci nella collana Libro Aperto diretta da Antonio Patuelli) documentano il continuo braccio di ferro tra Cavour e il re che,volendolo, presenziava alle sedute dei suoi ministri. Non sempre chi veniva incaricato di formare il ministero ne assumeva la presidenza: era il tramite fra il sovrano e gruppi parlamentari (del tutto informali), in un regime che comunque non obbligava alle dimissioni in caso di voto contrario o di maggioranza risicata. Rimase celebre lo sferzante commento di Giovanni Giolitti quando al Senato il suo primo ministero passò per tre voti di scarto: due più del necessario, sibilò. Aveva in tasca lo scioglimento della Camera, in carica da appena due anni, e nuove elezioni.
Per rafforzarsi verso il Parlamento e la Corona i presidenti del consiglio tennero per sé portafogli di peso. Su quel terreno Destra e Sinistra storica ebbero condotta uniforme. Nel primo governo del regno d’Italia (1861) Cavour volle Esteri e Marina. Il suo successore, Bettino Ricasoli, aggiunse Interno e Guerra; Minghetti tenne le Finanze; La Marmora gli Esteri e la Marina; Rattazzi l’Interno, e via continuando. Il primo presidente di Sinistra, Agostino Depretis, fu ministro delle Finanze ed ebbe l’interim dei Lavori pubblici. Nel secondo governo aggiunse gli Esteri, dopo le dimissioni di Crispi, come poi nel suo terzo ministero.
Nel primo governo composto anche da sottosegretari, quando subentrò a Depretis (morto il 29 luglio 1889) Crispi tenne Esteri e Interno. Il suo successore, Rudinì, si accontentò degli Esteri. Giolitti, invece, volle sempre l’Interno che gli serviva per fare e disfare le maggioranze parlamentari, con infornate di senatori e alchimie elettorali. Alcuni studiosi stranieri (come l’inglese Denis Mack Smith, applaudito da autori nostrani digiuni di diritto pubblico) parlarono di “dittatura”, trascurando che altrettanto avveniva in Gran Bretagna e negli altri Paesi ove i governi miravano ad arginare col Parlamento lo straripante potere della Corona.
Il primo presidente senza portafogli ministeriali fu il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli (15 febbraio 1901- 3 novembre 1903). Oggetto di vari studi, soprattutto di Roberto Chiarini, ma tuttora privo di una biografia organica, compensò con molti discorsi il modesto peso politico effettivo. Corrivo ad “annunciare”, nel 1902 fece annunciare nel Discorso della Corona l’introduzione del divorzio, suscitando la protesta del Vaticano. Contrario a sfidare i clericali mentre ben altro premeva, Giolitti si dimise da ministro dell’Interno. A suo avviso l’esecutivo e la Corona non potevano contrapporsi al Paese, i cui umori venivano sondati attraverso prefetture e questure.
Gli orientamenti dei cittadini divennero il metro del governo sino al 1914-1915, quando invece con un colpo di Stato, il ministero Salandra-Sonnino gettò l’Italia nella fornace della Grande Guerra, sulla base del Patto di Londra del 26 aprile 1915, conosciuto solo dal re, da un terzo dei quattordici ministri e da alcuni uomini della Corona, ma ignoto al Paese e al Parlamento. Il resto andò di conseguenza. Nel 1922 Mussolini formò un governo di coalizione nazionale. Tenne Esteri e Interno ma, conoscendosi, volle a fianco talenti di prim’ordine: Giovanni Gentile, Alberto De Stefani, Luigi Federzoni, Giovanni Colonna di Cesarò… Il re gli impose Armando Diaz e Thaon de Revel, dioscuri della Vittoria.
Tre anni dopo, mentre l’opposizione si arroccava fuori dell’Aula (lo stolto Aventino), Mussolini ottenne la legge 24 dicembre 1925, n.2263 su Attribuzioni e prerogative del Capo del governo, che stabilì: “Il potere esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo (…) Il primo ministro è capo del governo (…) Dirige e coordina l’opera dei ministri (…)”: molto più di quanto stabilito dal Regio decreto del 14 novembre 1901. Le offese al Capo del governo con parole o atti furono punite con la reclusione o detenzione da sei a trenta mesi e la multa da 500 a 3000 lire. Sbaragliati gli altri partiti, con quella legge Mussolini mirò soprattutto a imbrigliare le turbolenze all’ interno dello stesso Partito nazionale fascista. Però, più forte rispetto ai ministri e alle Camere, neppure Mussolini intaccò davvero il potere della Corona.
Dopo le dimissioni imposte con fermezza a Mussolini da Vittorio Emanuele III il 25 luglio 1943 e l’avvento di Pietro Badoglio (in forma irrituale, come ricorda Elio Lodolini in un saggio del 1953, aggiornato e candidato di pregio al Premio Acqui Storia), i partiti, per decenni vissuti come lucciole nelle tenebre, mirarono ad assumere il controllo totale del potere: esecutivo, legislativo e ordine giudiziario. Quest’ultima fu una partita facile. Nei governi Badoglio, che gettarono le basi dell’epurazione, i ministri della Giustizia dovevano far scordare il loro passato: Gaetano Azzariti, già presidente del tribunale della razza, ed Ettore Casati, che non arrivò dalla Luna ma da primo presidente della Corte suprema di cassazione.
Per soggiogare l’esecutivo i partiti spararono ad alzo zero contro Vittorio Emanuele III, costretto a trasferire tutti i poteri al Luogotenente e impedito di rientrare in Roma, sino a quando, dopo l’abdicazione del 9 maggio 1946, partì per Alessandria d’Egitto, ove tuttora giace. Perdurando la guerra, sin dal 22 aprile 1944 i cinque partiti che formavano il governo imposero altrettanti ministri senza portafoglio a guardia del presidente Badoglio. Anziché di essere fedeli al re, essi giurarono sul loro onore che non avrebbero interferito sulle futura scelta della forma dello Stato. Ivanoe Bonomi, per quel che valevano, tenne per sé Esteri e Interno, ma rimase sotto la ringhiosa vigilanza di sette ministri senza portafoglio (sei dell’esarchia formante il Comitato di liberazione nazionale e Carlo Sforza, che rappresentava…se stesso). Nel governo seguente Bonomi non ebbe alcun ministero. Altrettanto fece Ferruccio Parri, primo presidente del dopoguerra. Il suo successore, il democristiano Alcide De Gasperi, tenne gli Esteri per traghettare l’Italia, sconfitta e sotto tutela dei vincitori, dalla monarchia statutaria alla repubblica parlamentare.
La Costituzione ora vigente relega il Governo agli articoli 92-96, dopo Camere, formazione delle leggi e presidente della repubblica. Il presidente del consiglio dei ministri mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuove e coordina l’attività dei ministri, ma non ne è il capo. Propone i ministri, ma, come dicono le cronache, a volte deve assecondare un Potere più alto. Nel primo decennio repubblicano (1948-1953) i presidenti del Consiglio ebbero un vice e, con qualche eccezione, tennero per sé gli Esteri (De Gasperi, Pella e Fanfani). Dal primo governo di Ferdinando Tambroni (1960) il presidente non ebbe più portafogli. Declinò a mediatore tra segreterie dei partiti (presenti nell’esecutivo con propri esponenti o disposti a sostenerlo con formule cangianti e bizzarre) e presidenti della Repubblica. Si susseguirono monocolori (a volte balneari), bicolori, tricolori, governi della non sfiducia… Oggi non va molto meglio. Il governo boccheggia tra un voto di fiducia e l’altro, sorretto dalla stampella dei senatori vitalizi.
La storia degli ultimi decenni ha registrato la crescente divaricazione tra i partiti e i loro esponenti al governo, cioè tra collettori del consenso e Stato: un processo corrosivo e degradante, aggravato dalla polverizzazione del potere centrale con l’avvento delle Regioni e la moltiplicazione di enti dai profili labili ma voraci. Da un quarto di secolo la consultazione dei cittadini è risultata sempre meno gratificante per i governi. Il 6 aprile 1992 i due principali partiti strapparono l’ultimo risultato a favore della stabilità: la Democrazia Cristiana ebbe il 30% dei suffragi e 206 seggi; il Partito comunista il 16% e un centinaio di deputati.
Era l’invocazione di chi temeva l’implosione del sistema. Dal 1994-1996 l’esecutivo trasse poca gioia dall’urna. I risultati furono sempre meno prevedibili e quindi sempre meno determinanti per la formazione dei ministeri, frutto di coalizioni non preannunciate agli elettori o a geometria variabile come quello ora in carica: esso ha cambiato presidente per decisione interna di un suo componente, senza mutare maggioranza e si fonda su un consenso presunto, con crescenti margini di fragilità. Di lì la tentazione, in parte attuata anche senza certificazione costituzionale, di cancellare il diritto di voto: un’incognita per lui terrificante, soprattutto in presenza del 40-50% di astensioni.
È il caso delle Province, le cui amministrazioni non sono più elette dai cittadini, e della Camera Alta (la cui riforma, però, per ora è stata approvata solo dal Senato: caso curioso di suicidio di un Organo dello Stato). Ma prima o poi alle urne si dovrà pur tornare. E lì si vedrà se a ottenere il consenso del Paese basta il controllo di una porzione di un partito e spacciare il favore del 22% degli aventi diritto al voto, cioè la quota ottenuta dal Partito democratico nelle elezioni degli eurodeputati lo scorso maggio, come fosse davvero il 41% degli elettori: in linea col trucco del 18 giugno 1946 quando la Corte suprema di cassazione a maggioranza stabilì che per votanti s’intendessero solo i voti validi.
Ogni raffronto tra il presidente del consiglio attuale con il passato remoto è comunque del tutto infondato: Cavour, Crispi, Giolitti, lo stesso Mussolini ressero perché erano ministri del re. Oggi il presidente della repubblica, eletto dal parlamento, nomina il presidente del Consiglio, il cui governo, però, deve avere la fiducia delle due Camere elettive (art.94). Ed è lì, nel combinato caotico tra capo di Stato elettivo, elettorato ondivago e parlamento incontrollabile (come dimostra la vicenda della mancata elezione di due giudici della Corte Costituzionale), che s’infrangono i sogni di gloria di chissà quali riforme, di un fare che si esaurisce in quotidiani avventati discorsi della corona del presidente del consiglio: senza troni né altari, solo poltrone e altarini che è meglio non scoprire.
La riforma delle riforme riguarda la forma dello Stato: da scaleno qual è farne un triangolo equilatero. «Da qualunque parte lo si guardi – scrisse Luciano Violante nel 1992 – , il problema italiano sembra irresolubile senza un cambiamento istituzionale. (…) Ma la via della riforma non è ricoperta di petali di rose e non è scontato che la riforma sarà democratica». Appunto.
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