Molti cattolici osservanti e alcuni altri si interrogano sulla portata del pontificato di Francesco. Apre un’era novella? È magistero o affabulazione? Il Pastore guida o accenna a sentieri impraticabili? Reggerà la navicella in gran tempesta? Al riguardo va letto e riletto l’editoriale di T. Howland Sanks S.J nel n. 3966 di La civiltà cattolica, Una Chiesa che può e non può cambiare. Certo le procelle non mancano. Ma non sono peggiori di quelle dei secoli andati. Solo chi è digiuno di storia ritiene che oggi questo lembo del pianeta, la cosiddetta Europa, stia peggio che nei secoli andati, quando, senza bisogno di fondamentalismi d’importazione, faceva tutto in casa. Squartava col tiro dei cavalli i condannati per reati speciali, bruciava vivi eretici e streghe, si massacrava in guerre feroci con pretesti che oggi riteniamo inaccettabili ma all’epoca erano invece fondatissimi, persino sacri: guerre di religione o di mero potere tra parenti di una stessa casata, spesso mossi da motivi abietti o per il dominio su piccoli feudi popolati da genti miserevoli. Alcuni si domandano se l’attuale vescovo di Roma possa appiccare un incendio planetario o stia elevando una diga nel timore del peggio, come accadde nell’America meridionale negli anni da Pinochet a Videla, quando si trattò di scegliere tra regimi autoritari di breve periodo (completi di orrori di vario genere) e il caos a tempo indeterminato, come era accaduto in Africa, con ampio intervento di militari cubani, specialisti di guerriglia. Altri infine si domandano se Francesco sia il Vicario di Cristo o il vicario di Benedetto XVI e che cosa potrebbe accadere in caso di sua rinuncia alla tiara. La memoria va a papa Felice V, Amedeo di Savoia, primo duca della Casa con l’ordinale VIII. Dopo la deposizione visse da papa, come ricorda Valerio Gigliotti nell’ottimo La Tiara deposta (Olschki). Tutto accadeva in tempi di fede e di attesa del tempo, proprio come ora. Papa Francesco potrebbe alimentare un nuovo Sessantotto in saio francescano? Motivo in più per riflettere su quello, in maglietta, di mezzo secolo fa. Come tutti i sommovimenti planetari, anche il Sessantotto ebbe radici, versioni, durata e ripercussioni diverse da Paese a Paese. Esso stette alle trasformazioni di inizio Anni Sessanta (papa Giovanni XXIII e i due protagonisti mondiali, Kruscev nell’Urss e Kennedy negli Usa) come l’Internazionalismo anarco-socialista ottocentesco alla Commune di Parigi del 1871: con esiti parimenti disuguali. Il caso di Giovanni Pascoli (nella scolastica identificato con la poetica del fanciullino) è emblematico: internazionalista da giovane (e perciò arrestato e processato, ma difeso dal suo Maestro e Vate, Giosue Carducci, prossimo a tessere l’elogio dell’Eterno femminino regale in omaggio alla Regina Margherita di Savoia), massone dal 1882, uomo d’ordine e cantore dell’Italia monarchica, della Grande Proletaria impegnata nella giolittiana conquista della Libia e del Risorgimento, sempre abbacinato dai miti dei suoi primi anni (Garibaldi, i Carbonari, Dante esoterico…). Se negli Usa la rivolta giovanile (mai rivoluzione, che è tutt’altra cosa) fu la risposta alla guerra del Vietnam, ai dubbi sui veri mandanti dell’assassinio di John Kennedy (un mito che ha retto all’accertata modestia della persona) e agli scandali politici, in molti paesi europei, come Francia e Belgio, il sessantottismo fu il contraccolpo della decolonizzazione (gli orrori perpetrati dai colonizzatori nelle guerre di Algeria e del Congo, ove fu assassinato anche il segretario delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjoeld (ne scrive Enrico Tiozzo nel robusto saggio sui Premi Nobel, ed. Olschki). Dal canto suo l’Italia, sconfitta nella seconda guerra mondiale e lacerata sia dalla guerra civile sia dalla pluridecennale contrapposizione muro contro muro tra Democrazia Cristiana e Fronte popolare socialcomunista, liberata dal fardello dell’impero coloniale (superiore alle sue residue risorse), viveva in una situazione politico-culturale di stallo: inchiodata alle tavole del clericalismo tardo-ottocentesco, completo di riti più superstiziosi che religiosi, e della altrettanto mitica attesa dell’Armata Rossa (plaudita per quanto fece in Ungheria nel 1956 anche da un futuro migliorista e presidente della Repubblica quale Giorgio Napolitano, evocato da Tito Lucrezio Rizzo in I Capi dello Stato dagli albori della Repubblica ai nostri giorni, ed. Gangemi). Ci vollero quasi dieci anni per passare dal centrismo (Alcide De Gasperi-Giuseppe Pella) al Centro-sinistra organico (Aldo Moro-Pietro Nenni), che perciò nacque amorfo. La parola d’ordine era rinviare per svuotare. Lo mostrò la mancata fusione tra Partito socialista italiano e Partito socialista democratico italiano, divisi dal 1947. Si abbinarono con una U finale. Stava per Uniti. Finì in farsa. Per di più il Partito socialista perse per strada l’ala sinistra, che divenne il Partito socialista di unità proletaria, al cui finanziamento concorsero anche organizzazioni niente affatto pauperiste, che puntarono sugli effetti deflagranti di una pattuglia di estremisti da salotto (indipendenti di sinistra in arrivo dalle file del moderatismo moralistico venato di radicalismo: era il caso di Ferruccio Parri e di Franco Antonicelli) nelle file del social-comunismo. In Italia il Sessantotto fu lo scossone impresso a un sistema istituzionale e politico-partitico esausto, svigorito, incapace di rinnovamento culturale-religioso dal proprio interno, col freno a mano sempre tirato (Paolo VI, Aldo Moro, Enrico Berlinguer…, i governi Andreotti) ma al tempo stesso corrivo a lasciar fare, lasciar passare. Era la ricaduta del Concilio Vaticano II della cui storia scomoda ha scritto Roberto De Mattei nel saggio che vinse il Premio Acqui Storia, con sorpresa dei veri credenti e scandalo degli anticlericali in servizio permanente effettivo. Dieci anni dopo, la spinta verso l’ammodernamento si impantanò fra attentati stragistici, trapassi naturali, la richiesta di Ugo La Malfa di introdurre la pena di morte contro i terroristi e con l’avvento del grande centro (dal PLI al PSI) dopo anni di contrapposizioni artificiose muro contro muro e di appelli al compromesso storico, cioè alla spartizione della torta, da Roma all’ultima delle amministrazioni locali (regioni, province, comuni), delle banche, delle cooperative, degli enti partecipati, cioè finanziati con pubblico danaro, spesso inutili e in rosso fisso. Simbolo dell’Italia era e rimase la Lupa che allatta i due gemelli. All’immobilismo e all’inerzia pubblica di Governo e Parlamento i cittadini risposero col rifugio nel privato, che oggi, dopo altri decenni di inconcludenza, si esprime con la diserzione dalle urne. Questo è un sessantottismo capovolto, reso più adulto dalla delusione verso il sistema istituzionale, ma ancora indulgente verso movimenti, gruppi e/o il poetare in libertà. A presidenti e a ministri vari sempre sorridenti, come ci fosse ogni giorno chissà che cosa da festeggiare, va ricordato che un sistema votato dal 50% degli aventi diritto è più debole e pronto a sfarinarsi di quello vigente nell’Italia monarchica, quando alle urne andava il 60-70% dei cittadini, anche se analfabeti. Là c’erano Valori. Oggi predominano minuscoli valori… di borsa e giochini speculativi (dimentichiamo l’affaire delle Banche cooperative?). Il Sessantotto espresse il sogno ingenuo che per migliorare il mondo, tutto e subito, bastasse scrollare l’albero. Nel tempo si constatò che le grandi promesse (Onu, Europa, la Cuba di Castro e Guevara, il primo criminale politico, il secondo non privo di eccessi sadici, la Cina di Mao, gli Usa di Carter…) erano un elenco di problemi, la cui soluzione avrebbe richiesto più politica, ma armata di scienza, e più scienza, ma libera dal potere: una scommessa a tutt’oggi persa. Infine, la matrice profonda del Sessantotto fu il superamento dell’equilibrio del Terrore, l’esorcizzazione della guerra nucleare incombente. Ma ora che la proliferazione della Bomba è una realtà scontata (ed è causa di maggior incubo, perché ne è meno possibile il controllo), ci si rassegna a un super-potere mondiale in cambio di un po’ di sicurezza quotidiana in più, della mera durata in vita. Perciò in un Paese a noleggio, qual è l’Italia (che sta all’Europa odierna come il ducato di Parma e Piacenza stava all’Italia di metà Ottocento: politicamente e militarmente irrilevante), il Sessantotto è il trapassato remoto… Per dirla col Jaufrè Rudel di Giosue Carducci, è l’ombra di un sogno fuggente e come tutti i sogni svaniti, non suscita alcuna passione. Le prediche di Francesco faranno forse aprire il becco agli uccelli di altri continenti. Gli europei sono troppo vecchi e ormai di pasto leggero. Sono stanchi di storia, di sessantottismi, di magliette. Non sentono neppure bisogno di speciali assoluzioni, né, quindi di anni giubilari, di indossare il saio. Sono foglie cadute, steli rinsecchiti galleggianti nel flusso della storia.
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