Roma (Renato Balduzzi) – Nella seduta di mercoledì 20 maggio, il plenum del CSM ha deliberato il parere sul disegno di legge (AC 2798) di modifica del codice penale e del codice di procedura penale. Riportiamo di seguito l’intervento del prof. Renato Balduzzi durante la discussione.
Divido il mio intervento in tre parti.
1) La prima attiene al contesto e al metodo.
La vicenda di questo parere che ci accingiamo ad approvare ha riproposto due questioni, entrambe attinenti al rapporto tra il Csm e la comunicazione.
La prima questione concerne il collegamento tra il lavoro in commissione e le deliberazioni del Consiglio superiore nella sua collegialità, quello che noi chiamiamo il Plenum. Va richiamato che l’unica articolazione del Consiglio che, quando parla, impegna l’intero Csm, è la Sezione disciplinare. Lo ricordiamo a noi stessi e agli amici giornalisti. Tuttavia, poiché quando viene iscritta all’ordine del giorno, una proposta fatta da una commissione al Consiglio diviene pubblica, allora forse ne consegue che lo stesso Csm dovrebbe, attraverso il vicepresidente o il Comitato di presidenza, valutare di darne la chiave di lettura, eventualmente delegando il relativo compito alla commissione interessata. Ciò ridurrebbe il rischio che l’estrapolazione di frasi o di parole, tratte da proposte in genere complesse ed elaborate (e connotate spesso da un elevato livello di tecnicismo), finisca per comunicare all’opinione pubblica un senso distorto della posizione che va formandosi in seno al Consiglio superiore.
La seconda questione che si è riproposta è quella che tocca i rapporti tra il Csm e la politica, in particolare il complesso Parlamento-Governo.
Abbiamo letto sugli organi di informazione che il Csm avrebbe dato “uno schiaffo” al Governo, addirittura una “batosta”. Capisco che le metafore muscolari o sportive aiutino ad attirare l’attenzione del lettore o del telespettatore, ma esse sono poco utili per comprendere i rapporti tra le istituzioni della Repubblica. Colgo l’occasione per ricordare a me stesso e alla generalità dei commentatori che il Consiglio superiore della magistratura non è un sindacato della magistratura (a veder bene, neppure l’Associazione nazionale magistrati lo è), ma è l’organo voluto e disciplinato dalla Costituzione per assicurare alla magistratura stessa quella autonomia e quella indipendenza che costituzionalmente le spettano, nel solo interesse della giustizia e della sua amministrazione in nome del popolo italiano. Nessuna parzialità, nessun trattamento di favore o disfavore a questo o a quel Governo e al suo colore politico. Nel nostro parere c’è “soltanto” (e non è poco) l’applicazione della nostra responsabilità, una responsabilità che è nutrita da una teoria e da una pratica della leale collaborazione, di cui anche la tempistica di questa nostra giornata, ricordataci dal vicepresidente Legnini, è un esempio eloquente. Ecco perché, al fine di evitare fraintendimenti su questo punto, ho condiviso un emendamento al nostro parere che è volto a sottolineare la serenità e l’obiettività con cui il Consiglio superiore ha affrontato il tema. Mi rimetto però alla valutazione del relatore, al quale do atto della tenacia con cui ha perseguito l’obiettivo di un parere importante e della sensibilità dimostrata nell’avere egli stesso proposto una riformulazione del testo (e forse qualche cosa in più potrebbe essere fatta) per evitare qualsiasi strumentalizzazione.
2) La seconda parte del mio intervento è volta a fornire esemplificazioni dell’equilibrio di giudizio che costituisce il proprium anche di questo parere.
Si pensi anzitutto alle osservazioni riguardanti il nuovo istituto della condanna su richiesta dell’imputato: se da un lato se ne riconosce, in positivo, il coordinamento con la revisione della disciplina sul patteggiamento, mediante la soppressione del c.d. patteggiamento allargato, dall’altro si segnala la difficoltà, allo stato attuale, a formulare giudizi predittivi sull’efficacia deflattiva e per altro verso non si tace la problematicità dell’aver individuato la confessione quale presupposto essenziale per l’attivazione di questo rito, notando il rischio di un’eccessiva premialità in presenza di un quadro probatorio così solido. Questa attenzione a distinguere i diversi profili e a fornire un parere articolato e argomentato credo prevenga ogni appunto su di una presunta tendenza del Consiglio ad enfatizzare i toni critici.
Il che mi pare ancor più evidente, in secondo luogo, facendo il caso della reintroduzione del concordato in appello, laddove viene sottolineato l’apprezzamento per la scelta di valorizzare la funzione di coordinamento assegnata al Procuratore generale rispetto ai criteri applicativi dell’istituto, senza tuttavia rinunciare a proporre in senso costruttivo l’opportunità di rivedere alcune esclusioni di ordine soggettivo allo scopo di potenziare gli effetti deflattivi perseguiti.
Come terzo esempio mi rifaccio alla parte del parere dedicata alla delega sulla disciplina delle intercettazioni, dove traspare una serenità di giudizio che, in ragione dell’elevata “litigiosità” che si registra in sede di dibattito pubblico, non poteva darsi per scontata e che in verità poggia proprio sull’aderenza delle osservazioni al loro oggetto e sul conseguente riconoscimento, ad esempio, dell’assenza di norme volte di per sé a restringere l’impiego del mezzo di ricerca della prova (come invece era accaduto per passate proposte di riforma). L’aver evitato di utilizzare le ragioni di una più efficace ed effettiva disciplina sulla riservatezza delle intercettazioni per limitarne in realtà l’utilizzazione processuale è una direzione apprezzata dal Consiglio, il quale peraltro non manca di rammentare la sua posizione, assai chiara, a sostegno dell’esigenza prioritaria di non mettere a rischio la funzionalità di uno strumento d’indagine e di costruzione della prova il cui rilievo è direttamente proporzionale a quello dei reati attinenti a quelle pratiche di corruttela e malaffare che affliggono il nostro Paese.
Un cenno è necessario dedicarlo a questo punto al tema della legalità: tutto ciò che va, in modo equilibrato certamente, nella direzione di contrastare elusione ed evasione fiscale (e quella loro singolare causa ed effetto al tempo stesso che è costituita dalle condotte di falso in bilancio), deve essere senza se e senza ma sostenuto dal CSM.
3) Vengo quindi ad un ultimo aspetto sul quale ritengo opportuno soffermarmi, ovvero su quanto “manca” in questo disegno di legge, ma in realtà manca in genere nella legislazione relativa al settore penale in particolare. Il parere lo mette in luce, ma qualche sottolineatura credo sia utile.
È frequente nel nostro dibattito interno e nei pareri resi in questa consiliatura e nelle precedenti, oltre che nel dibattito dottrinale e talora in quello istituzionale, un diffuso richiamo a una maggiore organicità e sistematicità della legislazione penale e processual-penale. È indubbio che, in questo settore forse più che in altri, il rischio che interventi frammentari e a volte scomposti aumentino anziché diminuirli i problemi che tentano di affrontare. La perdita di razionalità e coerenza interna del catalogo dei reati di parte speciale, da più parti denunciata, è un male che rischia di far perdere legittimazione sociale e credibilità alla giustizia penale nei confronti dei cittadini. Le periodiche punte del dibattito su fatti di particolare allarme sociale non possono trovare soltanto una risposta emergenziale, che risulta omogenea con la domanda nella misura in cui più che incidere sulle cause del disagio espresso dai cittadini onesti finisce per soddisfare soltanto simbolicamente la legittima istanza di giustizia che supporta quella domanda sociale. Ma la questione va oltre. Perché la rinuncia ad una valutazione ponderata e plurale di questi problemi reca con sé l’insufficienza tecnica e la debolezza culturale delle soluzioni proposte. La domanda di giustizia che si rivolge al sistema penale non va solo interpretata, ma deve essere oggetto di un dibattito essa stessa: è una domanda di pene certe? Senz’altro. È una domanda di processi più veloci? Anche. Ma queste sono domande e risposte necessarie ma ancora parziali, perché al fondo sta il problema della sanzione penale e delle sue funzioni.
Sul punto è onesto constatare una divaricazione tra ambienti interni ed esterni al sistema giustizia. L’enfasi sulla funzione rieducativa della pena (momento di civiltà irrinunciabile e vera grande innovazione della Costituzione in quest’ambito) non può essere interpretata come disprezzo per la domanda delle vittime, che si orienta invece maggiormente alla funzione retributiva della sanzione. Non è un caso che il lento sviluppo nel nostro sistema delle sanzioni non detentive si accompagni costantemente all’esigenza di rimediare al sovraffollamento carcerario e alla conseguente lesione dei diritti dei carcerati così gravemente censurata anche a livello sovranazionale. Si tratta di una prospettiva non soltanto legittima, ma necessitata e da coltivare. E pur tuttavia non può essere la sola altrimenti è come se si affermasse che la ricerca di pene diverse da quella carceraria sia una soluzione obbligata per l’insufficienza del nostro ordinamento penitenziario e delle strutture che ne fanno parte. Credo che in questo consesso e a tutta la magistratura paia evidente la semplificazione e il rischio ad essa connesso.
Tutte le commissioni di studio sulla riforma del codice penale o, almeno, di parte della legislazione penale e processualpenale – dalla commissione Grosso all’ultima commissione Palazzo – hanno riconosciuto nella struttura della pena il nodo da risolvere. La commissione Palazzo non ha nascosto il fatto che anche interventi graduali possono essere utili, specie alla luce dell’esito assai modesto di progetti di riforma complessiva del codice.
Le soluzioni sono diverse.
Alcune sono attualmente nelle disponibilità del legislatore governativo: ricordo che sta ancora decorrendo il termine per quella parte della legge delega n. 67/2014 dedicata alla riforma della disciplina sanzionatoria, mentre è decorso quello di cui all’articolo 1 della stessa sulle pene detentive non carcerarie, ma è da poco scattato l’ulteriore periodo concesso per i decreti correttivi e integrativi. Come a dire che anche il risultato, da molte parti giudicato modesto e migliorabile, che questa delega ha prodotto con il d.lgs. n. 28 di quest’anno (sulla c.d. tenuità del fatto) ha tutt’ora margini possibili d’implementazione.
Frequente, poi, è ormai il richiamo agli istituti di giustizia riparativa. Qui non possiamo nasconderci un punto: si tratta di un orizzonte nuovo per il nostro Paese, con limitate esperienze pratiche, ma con elaborazioni dottrinali e proposte concrete anche discretamente consolidate; si tratta di un “mondo” che va fatto uscire dalla genericità con il quale sovente lo si evoca. E che non può essere inteso come esclusivamente connesso alle vicende – ad esempio quella relativa ai reati sessuali o contro la donna – in merito alle quali si sono avanzate proposte interessanti e che hanno avuto eco anche nel dibattito pubblico. Si tratta di una risposta culturale. La riparazione così come intesa dalla migliore dottrina passa per una ricerca di modalità alternative al carcere di soddisfazione del desiderio “retributivo” delle vittime o dei loro parenti, ritenuta essenziale anche per il percorso di rieducazione del colpevole (anche nella sua veste più marcatamente special-preventiva).
Se tutto questo ha un fondamento, credo che il Consiglio superiore debba trarne un convincimento ancor maggiore per migliorare l’esercizio non solo delle proprie funzioni consultive e di proposta – che come noto non sono interpretate soltanto in un’ottica di “reazione” ma anche di “stimolo” e sollecitazione – bensì anche delle altre assegnategli dalla legge. Ad iniziare da quelle inerenti alla formazione continua dei magistrati.
Da ultimo, non posso non aderire al plauso per il lavoro dell’Ufficio studi. Non è un atto dovuto da parte del suo direttore pro-tempore. Così come (soprattutto noi componente non togata) non abbiamo mancato nei mesi scorsi di chiedere ai magistrati dell’Ufficio studi uno sforzo maggiore di sinteticità e di leggibilità delle relazioni e delle bozze di parere che l’Ufficio rende, così non va sottaciuta la qualità del lavoro prodotto dall’Ufficio stesso, vero e proprio motore culturale dell’intero Consiglio superiore della magistratura.
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