André Michel Ramsay, di origini bastevolmente oscure da fregiarsi del titolo di “cavaliere”, deista prima cattolico poi, iniziato libero muratore nel marzo 1730, attribuì alla Massoneria la diretta continuità con i cavalieri crociati: nasceva un “mito” destinato a glorie non periture e profondamente permeato nel mondo esoterico, indulgente a conferire tanto più credito a ciò che meno appare credibile. Più tardi esso saldò la Massoneria con l’Ordine del Tempio: il più glorioso ma anche discusso e sventurato fra i religiosi-cavallereschi. Hugues de Payns e gli otto compagni che con lui si presentarono nel 1118 a Baldovino II di Gerusalemme per difendere le strade (o cercare il Graal, al riparo del Masjid-el-Aksa, sorto sull’antico Tempio salomonico, secondo certe erudite fantasticherie) sarebbero stati i primi depositari di un segreto che chiamò a raccolta nomi tra i più prestigiosi dell’aristocrazia feudale e punteggiò di commende e castelli il bacino mediterraneo e l’Europa sino al Baltico. Obbedienti a una Regola dettata dal cistercense Bernardo di Chiaravalle, un santo così insospettabile da far da guida a Dante nella Mistica Rosa quando la teologa Beatrice non bastava più (a meno che proprio di lì traggan conferma di verità quanti indiziano lo stesso Dante di appartenenza al terz’ordine templare, argomentando con l’anatema scagliato dal poeta fiorentino contro lo sterminatore Filippo il Bello di Francia), essi fiorirono sino alle soglie del Trecento. Creato un grande impero economico, i Cavalieri del Tempio avrebbero promosso una saggia mediazione, volta a conciliare, almeno per i più alti “iniziati” delle rispettive “culture”, le verità del cristianesimo, dell’ ebraismo, dell’islamismo. L’allegoria araba dei tre anelli, ripresa da Boccaccio nella favola di Melchisedec giudeo, terza novella della prima giornata del suo Decameron, ne sarebbe esplicita allegoria, tanto quanto la definizione del “sommo bene” da Dante attribuita ad Adamo, diversa nei tempi e nei luoghi: ” … e ciò convene/ ché l’uso dei mortali è come fronda/ in ramo, che sen va e l’altra vene” (Paradiso, XXVI, 137-39). Accusati di riti blasfemi – la taccia di sodomia lasciava il tempo che trovava negli anni di Brunetto Latini – e di eresia, i Cavalieri sicuramente erano colpevoli della loro compattezza, della smisurata forza economica, della spregiudicata mondanizzazione e del tentativo di ridurre la monarchia francese, allora sulla via dell’accentramento, alla condizione di un Gulliver legato coi mille fili del ricatto finanziario e dell’individualismo antistatalistico sublimato in spirito corporativo. Perciò vennero distrutti. Imprigionati e torturati, quanti non riuscirono a fuggire (verso il futuro e una Nuova Gerusalemme) finirono arsi vivi, a cominciare dal Gran Maestro, Jacques de Molay. Non senza tuttavia che ne discendesse una larga eredità nella simbologia solare, nella tradizione architettonica, nelle lotte tra Ordini e clero e nella diffusa avversione contro l’alleanza fra trono e altare che, nel patto di sangue tra Clemente V e Filippo il Bello, con l’annientamento dei Templari aveva dato così superba prova di sé, onde il ghibellirio Giosuè Carducci avrebbe cantato: “Quando porge la man Cesare a Piero da quella stretta sangue umano stilla quando il bacio si dan chiesa ed impero un astro di martirio in ciel sfavilla”.
Anche senza la gaietta pelle tra erudizione e archeologia attribuita ai Templari nel Mysterium Baphometi revelatum da Joseph von Hammer-Purgatall (1818), che li sospettava colpevoli di culti gnostici e ofitici (cioè del “Serpente”), il mistico apparentamento della Massoneria con l’Ordine del Tempio, riemergente da quattro secoli di silenzio, era fatto per soddisfare non pochi Fratelli di nobile estrazione, disposti a cingersi i fianchi col grembiule muratorio di bianca e cruda pelle d’agnello, a gravarsi gli omeri con lo scapolare rituale, a muoversi tra i simbolici attrezzi dell’ Arte Reale (compasso, squadra, livella, cazzuola … ) a patto che il “mestiere” venisse infine sublimato nel prestigioso riferimento all’Ordine onusto di storia e di leggende. La tentazione di introdurre nella Libera Muratoria gusti e aspirazioni che nulla avevano a che fare con le virtù predicate dagli old charges, gli “antichi doveri” delle corporazioni muratorie operative da cui aveva avuto origine nel 1717 la Massoneria speculativa o simbolica, era più forte sul continente che nell’Inghilterra del Gran Maestro, duca di Montagu, di Desaguliers, organizzatore della Loggia Madre, e di Anderson, dai cui studi uscirono le Costituzioni stampate nel 1723. Non che al di là della Manica mancassero del tutto figure di dubbia spiritualità. Ne fu un esempio illustre il duca Philip Wharton, pari d’Inghilterra a 19 anni, dissoluto almeno quanto ricco, presidente dell’Hellfire Club, gaudente sodalizio di libertini, bevitori e bestemmiatori incalliti. Benché fosse autorevolmente entrato nella storia per un efficace intervento alla Camera dei Lord contro una proposta di legge tendente a vietare le associazioni antireligiose, quando al termine di un’agape massonica volle che fosse suonato l’inno della deposta casa degli Stuart, i Fratelli, dimentichi della sua Gran Maestranza nel 1722, cacciarono dalla Massoneria l’incauto e lo bruciarono in effigie, lasciando all’alcol di consumarlo, appena trentatreenne, in persona: in terra di Spagna ove venne sepolto, nel monastero di Poblet, sino a quando, recatosi in visita e avutane notizia, Francisco Franco non ne fece rimuovere le spoglie, profanatrici di così sacro luogo.
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