di Luigi Bonelli – Maometto (qui sopra una rappresentazione del 1307 del Profeta con l’arcangelo Gabriele), all’inizio della sua carriera profetica, pone Dio in scena e parla come presso i profeti dell’Antico Testamento, fa frequente uso di formule di giuramento per attestare la verità della propria missione e i versetti sono generalmente brevi, Ciò che egli dichiara in questo periodo dà l’impressione di sincerità e veracità che la scienza, del resto, riconosce. Le sure del secondo periodo hanno uno stile più pacato; i versetti sono più lunghi, la poesia diminuisce e i giuramenti si fanno solo in nome del Corano e delle Scritture. In questo periodo di transizione la designazione di Dio per ar-Rahmàn (il Misericordioso) ricorre frequentemente; essa non è altro che l’ebraico Rahmànà, nome favorito di Dio nel periodo talmudico e usato molto prima di Maometto nell’Arabia Meridionale. Sembra che Maometto avesse l’intenzione, di poi abbandonata, di adottarlo come nome proprio di Dio in luogo di Allah, usato dai pagani. Quindi Allah è come per noi Giove o Zeus divenuto unico dio dopo che è stato il re degli dei pagani. Questa cosa è molto strana in quanto appare un adattamento del Corano e della fede rivelati a Maometto dall’arcangelo Gabriele come una prosecuzione del paganesimo dei beduini. È noto infatti come le varie nazioni musulmane abbiano sempre curato e curino tuttora di uniformare al Corano i propri ordinamenti religiosi e civili, e come le loro lingue e letterature siano state profondamente compenetrate della lingua e dello spirito del Libro sacro, il quale, benché da solo non sia sufficiente per la piena comprensione dell’Islamismo storico, rimase sempre per tutti i musulmani un’opera fondamentale, oggetto costante, per quei popoli, di un’ammirazione quale forse nessun’altra opera nella letteratura universale ha mai ispirato. Il Corano (Qur’an, “recitazione” testo da recitarsi salmodiando), composto fra il 610 (circa) e il 631, e che la critica europea considera opera autentica e personale di Maometto, rappresenta, per i musulmani, la rivelazione scritta comunicata da Dio al Profeta e consta di 114 capitoli detti sure, di lunghezza diversa (da 3 a 280 versetti); i versetti hanno per lo più, alla fine, delle assonanze, che però in quelli lunghi, medinensi, spesso scompaiono. Ogni sura ha un titolo che richiama qualche particolarità del suo contenuto. Il Corano, come codice religioso e civile, contiene una parte dogmatica e inoltre disposizioni varie regolanti la vita religiosa e sociale della comunità musulmana.
I dogmi prescritti sono:
1. l’unità di Dio, idea della quale il Corano è pervaso, si che questo si può forse considerare, dopo il Vecchio Testamento, come il libro più profondamente monoteista che sia stato scritto.
2. La missione di Maometto, apostolo di Dio, incaricato di insegnare agli uomini l’unità di Dio, che è l’essenza stessa della religione.
3. La credenza negli angelii: sono esseri intermedi fra l’uomo e la divinità, creati dal fuoco, non provano nessun bisogno inerente la natura umana, e sono intercessori presso Dio in favore degli uomini; alcuni di essi hanno una missione speciale, come Gabriele, incaricato di trasmettere la rivelazione.
4. La credenza nei dei demoni che sono gli angeli che, con Iblis (il diavolo) loro capo, che rifiutarono di prostrarsi avanti ad Adamo e perciò furono maledetti da Dio.
5. La credenza nella vita futura e eterna: risurrezione dei morti, giudizio universale, paradiso e inferno; questi concetti escatologici si trovano principalmente nelle sùre meccane.
La religione che il Profeta a Medina rivelava come un ritorno a quella vera, primitiva di Abramo era da lui concepita, in origine, come un giudaismo spogliato del cerimoniale mosaico o un cristianesimo liberato dal concetto dell’espiazione e della Trinità, capace quindi di assorbire idolatria, giudaismo e cristianesimo, e viene da lui chiamata Islàm ossia sottomissione alla volontà di Dio.
Questione assai importante e strettamente connessa col dogma è quella della predestinazione; molti passi del Corano si possono citare pro e contro il libero arbitrio sembra che tali dottrine contradditorie appartengano a periodi diversi dell’attività del Profeta; nei primi tempi, alla Mecca, avrebbe ammesso il libero arbitrio e la responsabilità, mentre a Medina sarebbe passato al fatalismo, per il quale di poi l’ortodossia sunnita si è formalmente dichiarata. Quanto alle pratiche rituali, esse sono:
1. La purificazione (abluzione con acqua o sabbia).
2. La preghiera che si deve fare parecchie volte al giorno, e che, nella forma, si connette sostanzialmente cogli usi del cristianesimo orientale.
3. L’elemosina, dapprima liberalità facoltativa, più tardi contribuzione obbligatoria per provvedere ai bisogni della comunità.
4. Il digiuno, fissato dapprima per un solo giorno ad imitazione di quello degli ebrei e trasportato poi a tutto il mese di ramadàn.
5. Il pellegrinaggio alla Mecca.
Alla guerra santa guerra contro gli infedeli è fatta spesso menzione nel Corano però essa è un dovere che basta venga compiuto da un numero sufficiente di musulmani. La morale del Corano è delle più pure; essa tiene conto delle necessità dell’esistenza e non ha esigenze superiori alla capacità della maggior parte degli uomini. Comanda, in sostanza, di fare tutto ciò che è bene e di astenersi da ciò che è male, di venire in aiuto ai propri simili e, in modo speciale, ai poveri e, fatto caratteristico per la vita commerciale della Mecca, di non frodare
Il Corano conserva, degli antichi usi arabi, la poligamia e la schiavitù, però limita la prima e allevia la seconda; interdice le unioni incestuose, frequenti allora in Arabia, rialza le condizioni della donna che protegge, bambina, contro l’infanticidio e alla quale assicura una dote e una parte nelle successioni; benché autorizzi il talione (vendetta), le penalità che stabilisce sono relativamente moderate; anche per l’omicidio volontario autorizza il compromesso qualora il parente più vicino della vittima, suo vindice naturale, sia a ciò disposto. Si può quindi affermare che, tanto nell’ordine civile quanto in quello penale, la legislazione coranica rappresentò per gli Arabi un reale progresso e il suo autore può venire annoverato a buon diritto fra i benefattori dell’umanità.
Particolarmente interessanti, fra le cose contenute nel Corano, sono le storie relative agli antichi profeti, che non sono, per lo più, se non un riflesso o un facsimile di Maometto e le loro vicende e peripezie sono quelle stesse del Profeta. Il Corano giunge al punto di far disputare Noè con adoratori di falsi dei menzionati per nome e che erano adorati dagli Arabi contemporanei di Maometto. Personaggi storici dell’Antico e del Nuovo Testamento sono spesso scambiati fra loro e talvolta fusi in uno solo: l’Àman della Bibbia, ministro di Assuero re di Persia, diviene nel Corano ministro di Faraone (S. XXVIII, 5-7, 38; XL, 38); Maria, sorella di Noè, è in pari tempo la madre di Gesù (S. XIX, 22). Molti di tali errori dovevano però essere già in corso ed accettati al tempo del Profeta.
Il Corano deriva da testi narrativi giudaici, specialmente la Haggàda e il Midrash (non l’Antico Testamento), quindi testi apocrifi cristiani e tradizioni cristiane arabe e siriache, senza escludere tradizioni e leggende dell’Arabia pagana. Dell’antico paganesimo arabo Maometto conservò, per ragioni di opportunità politica oltre che per necessità economiche e commerciali, il pellegrinaggio alla Mecca, imprimendo però ad esso un carattere monoteista.
Quando Maometto morì (632) non esisteva nessuna edizione del Corano. Solo frammenti staccati erano in possesso di alcuni suoi seguaci, scritti in epoche diverse su pietre lisce, scapole di montoni, costole di foglie di palma, ecc., e la maggior parte di esso era affidata alla memoria di alcuni musulmani, detti perciò i “Portatori del Corano”, che però la morte avrebbe potuto a un tratto far scomparire. Fu appunto dopo la guerra sanguinosa contro il profeta Muslama o Musailama (633), in cui molti dei musulmani trovarono la morte, che si intravvide il pericolo di una perdita irreparabile del Libro sacro. Un ex-amanuense di Maometto, di nome Zaid, fu allora ufficialmente incaricato di curare un’edizione del Corano, la quale fu quindi affidata alla custodia di Hafsa, figlia del primo califfo Abù Bakr, e vedova del Profeta. Le copie che furono eseguite su quella prima edizione ufficiale presentarono però ben presto tali divergenze che nell’anno 650 il terzo califfo, Uthmàn, decise di far eseguire a quello stesso Zaid, al quale furono associati altri due o tre Quraisciti, una seconda edizione, la quale sostituì interamente la prima e diede al testo la forma che ha ancora attualmente. Il modo con cui le 114 sure che costituiscono il Corano sono state ordinate, mostra che è stato seguito il solo criterio empirico della lunghezza dei capitoli: le più lunghe infatti furono poste grosso modo in principio e le più brevi alla fine, quasi precisamente all’opposto dell’ordine con cui esse erano state rivelate. Neppure è certo se il principio di S. XCVI sia realmente la più antica parte del Corano, come vorrebbe la tradizione che risale alla moglie preferita di Maometto, À’isha; questa infatti non era ancora nata al momento in cui la rivelazione avrebbe avuto luogo. Allocuzioni militari hanno pure una parte considerevole. Così, ovunque Maometto attacchi giudei o ipocriti chiami a combattere sulla via di Dio oppure dia disposizioni di ordine civile o penale (sia che si tratti di sure intiere, o di semplici brani o versetti isolati, ad es. S. VI, 147-8; XXIX, 1-10) egli è a Medina. Sono stati i Templari nel XII secolo a diffondere il Corano in Occidente con la versione latina fatta eseguire da Pietro il Venerabile abate di Cluny nel 1143 e che fu stampata da Bibliander in Basilea nel I543, ossia un secolo dopo la conquista turca di Costantinopoli. Ad essa molte traduzioni si succedettero nei secoli XVII e XVIII, però la più importante è, senza dubbio, quella del nostro Marracci, frutto di un’immensa erudizione e il cui alto valore non è stato mai adeguatamente apprezzato. Oltre a riprodurre in latino con fedeltà scrupolosa il testo da lui pubblicato, Ludovico Marracci (1612 – 1700) dà pure la traduzione di tutte le citazioni di scrittori orientali che egli riporta e la sua opera monumentale (pubblicata a Padova nel 1698 e dedicata all’Imperatore Leopoldo I) ha servito di base, non sempre dichiarata, alla maggior parte delle versioni posteriori.
Leave a Reply
Devi essere connesso per inviare un commento.