di Andrea Guenna – Probabilmente il 2015 non sarà l’anno della ripresa anche se gli Stati Uniti mostrano vigorosi segnali di crescita. L’assestamento del prezzo del petrolio ai bassi livelli attuali è un dato certamente positivo per l’economia in generale, mentre l’Italia potrebbe registrare qualche miglioramento già nella primavera avanzata del 2015 per quanto riguarda la domanda interna.
Il fatto che l’Eurozona stia vivendo un prolungato periodo di bassa inflazione (inferiore al 2%) si traduce in una sofferenza quasi insopportabile per le imprese, in quanto “inflazione tendente a zero” equivale ad “encefalogramma piatto”. Ecco perché occorre superare la soglia inflattiva del 2% per poter parlare di ripresa dei consumi, ma ciò succederà solo se l’Italia realizzerà le riforme strutturali che possano incidere sulla finanza pubblica.
Secondo i principali istituti di analisi economica (Iesi, Istat economic sentiment indicator) le imprese italiane non sono ottimiste e si tende a tirare i remi in barca come sempre fa il settore privato in periodo di stagnazione.
Si salva l’export con lieve ma costante aumento degli ordini. Tuttavia si potrebbe verificare un miglioramento per i beni intermedi (macchinari che possono essere utilizzati soltanto una volta nel processo produttivo come le materie prime, l’energia o il prodotto semilavorato destinato ad essere trasformato in prodotto finale) e per i beni strumentali. Scende la fiducia nel settore edile.
Male anche nel settore dei servizi dove si prevede una contrazione.
Cresce la fiducia nel commercio al dettaglio, sia nella grande distribuzione che in quella tradizionale.
Nelle grandi imprese si registra un aumento della produttività. Nel 2014, mentre l’occupazione è scesa, il numero di ore lavorate per dipendente (al netto dei dipendenti in Cig) è aumentato, rispetto al 2013. Per il 2015 è difficile fare previsioni in quanto, se da un lato non si prevedono miglioramenti sostanziali, dall’altro non ci è dato calcolare gli effetti sul mercato del lavoro derivanti dal Jobs Act, la vera incognita dei prossimi mesi.
Certamente la politica economica della UE e l’azione della Bce non aiutano in quanto il pareggio di bilancio imposto agli Stati dell’Eurozona genera il solo effetto di strozzarne l’economia. Bisogna riformulare subito il Fiscal Compact, cioè il Trattato sulla stabilità dell’Unione Europea firmato da 25 paesi il 2 marzo 2012, che prevede, appunto, l’inserimento del pareggio di bilancio (entrate = uscite) di ciascuno Stato con l’obbligo di mantenere entro il 3% il rapporto tra deficit e PIL, e, per i paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 60% previsto da Maastricht, l’impegno di ridurlo di almeno il 5% all’anno, per raggiungere quell’equilibrio considerato “sano” del 60%.
In Italia il debito pubblico supera i 2.200 miliardi di euro, intorno al 137% del PIL, per cui, per ridurlo, dovremmo caricarci ogni anno di una somma enorme per i prossimi vent’anni che si dovrà versare alla UE per rientrare nei parametri. Si parla di almeno 30 miliardi all’anno. Questa dipendenza finanziaria dalla Ue e dalla Bce costituisce per noi italiani una vera e propria gabbia economica perché in assenza di sovranità monetaria è praticamente impossibile imprimere allo Stato una spinta anticiclica, cioè in controtendenza alla recessione, per cui, per le nazioni che non stampano più moneta come l’Italia, ma devono dipendere dalle banche, è praticamente impossibile determinare la politica economica del Paese e “iniettare” denaro per realizzare le opere pubbliche nel rispetto del principio keynesiano, unico vero rimedio alla lenta morte del “rospo in pentola”, per cui se si mette un rospo (i cittadini, lo Stato) in un’ideale pentola d’acqua bollente (la crisi che ci strozza) il rospo schizza via e si salva, mentre se lo mettiamo in una pentola d’acqua ancora fredda, ma sul fuoco, l’acqua si scalderà lentamente e il rospo finirà per bollire senza avere il tempo di reagire, e morrà.
E la crisi vera, quella dura come il ferro, nel mondo deve ancora arrivare.
Ecco perché, in assenza di una reale politica economica comunitaria europea, la sovranità monetaria ci consentirebbe di intervenire nel settore finanziario esattamente come han fatto gli Usa (debito pubblico al 120%) che, tramite la Federal Reserve, hanno disposto l’acquisto di titoli per un totale di 40 miliardi di dollari al mese (33 miliardi di euro) fino a data da destinarsi (ovvero fino a quando la crescita economica USA non possa dirsi “sostenibile”) in un programma denominato QE3 (visto che si tratta del terzo programma di questo tipo). Non basta, perché anche Bank of England (banca centrale del Regno Unito: debito 90%) ha disposto un programma di acquisti per 375 miliardi di Sterline (500 miliardi di euro), e Bank of Japan (banca centrale del Giappone: debito 260%, cioè il doppio di quello italiano) ha ampliato il proprio programma di investimenti pubblici (spesa a debito) portandolo a 91.000 miliardi di Yen (632 miliardi di euro!).
Ma questi Stati godono di sovranità monetaria, mentre noi no e per poter intervenire con la leva degli investimenti pubblici possiamo solo contare sull’operazione di Quantitative Easing, cioè di alleggerimento quantitativo – o allentamento monetario – prevista a partire dal 2015 nell’ambito delle politiche monetarie adottate da Bce che ha iniziato con l’acquisto di titoli del settore privato.
Mario Draghi sa perfettamente che per salvare l’Eurozona dovrà per forza acquistare titoli di Stato sul mercato secondario (quindi non alle aste primarie delle singole tesorerie nazionali) in quantità definite dalla quota di partecipazione degli Stati membri al capitale della Bce. Vale a dire che, se Quantitative Easing (Qe) deve essere, la Bce comprerà prevalentemente bond governativi di Germania, Francia e Italia.
E probabilmente, già nella seconda metà del 2015, così facendo, si potrebbe registrare un aumento dell’attività economica promosso dalla maggiore circolazione di liquidità, dalla ritrovata facilità dell’accesso al credito e, di conseguenza, dalla stimolazione della crescita economica.
Sarebbe inoltre molto bello (ma la UE non lo consente… per ora) potersi ricomprare il debito verso l’estero (circa il 30% del debito totale, più o meno 660 miliardi di Euro) in cambio di una detassazione sull’importo acquistato e trasformarlo sui mercati in risparmi degli italiani, e in minori tasse per via dei minori interessi da pagare ai mercati stessi. I nostri nuovi titoli pubblici dovrebbero tornare ad essere esenti da ogni imposta presente e futura, tanto sui frutti, quanto sul patrimonio, secondo il principio einaudiano della detassazione del risparmio.
In sostanza lo Stato Italiano dovrebbe vendere titoli pari al debito estero, piazzati, tramite il sistema bancario interno, solo in ambito nazionale. Cioè chi acquistasse “titoli del debito pubblico” godrebbe di un abbattimento fiscale corrispondente e riferito alla denuncia dei redditi. Per esempio, se io devo pagare 20.000 euro di tasse, posso scegliere di acquistare, per lo stesso importo, un “pezzo” di debito pubblico. In questo modo si potrebbe abbattere il fenomeno dell’evasione fiscale e, ricomprandoci il debito verso l’estero, di fatto copriremmo tutto il debito in quanto l’Italia sarebbe indebitata solo con gli italiani, quindi con se stessa (come il Giappone lo è coi giapponesi), e il debito, di fatto, sarebbe solo una “partita di giro”, ciò consentendoci di avere mano libera nelle contrattazioni internazionali. Inoltre i titoli venduti a questo fine dovranno avere alto rendimento ed essere collocati in modo tale da scoraggiare l’accaparramento degli speculatori. Tutto ciò non è possibile oggi nell’Eurozona ma Renzi deve imporsi ed ottenere ciò che fa bene all’Italia. Deve picchiare i pugni sul tavolo e farsi sentire.
Inoltre il Governo deve assolutamente creare una banca nazionale che faccia “Credito per l’Economia” (CpE) sul modello tedesco della “KFW”, una banca pubblica che, da decenni, fa credito alle imprese, al lavoro ed alle comunità, alla produzione ed all’export.
Se non si fanno queste cose lo scenario non cambierà di molto. Infatti per l’area Euro si stimano incrementi di Pil sotto l’1%, troppo poco per agganciare subito la ripresa, mentre si prevede che nei primi tre mesi del 2015 il Pil italiano sarà fermo sullo zero.
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