Nell’estate 1914 anche l’Italia dovette fare i conti con la conflagrazione, subito violentissima, tra gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria, ai quali dal 1882 essa era legata da alleanza difensiva) e l’Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia, tutrice della Serbia). Che fare? Re Vittorio Emanuele III, il governo, presieduto da Antonio Salandra, la generalità dei parlamentari e, con poche eccezioni, le maggiori forze politiche, economiche e culturali furono per la prudenza. In quella guerra l’Italia non aveva poste in gioco dirette. Rimanendo neutrale essa avrebbe pesato di più nelle trattative per il ritorno al “concerto delle grandi potenze” durato in Europa dal Congresso di Vienna del 1815 al 1914 e, forse, avrebbe ottenuto “compensi” per via diplomatica (il Trentino e garanzie per gli italofoni di Trieste e dell’Istria).
Dopo le prime gigantesche battaglie, esose di vite e di risorse, la guerra divenne “di logoramento”. Incapaci di vittorie decisive, gli eserciti furono affossati in campi trincerati, dai quali milioni di uomini vennero lanciati in offensive mai risolutive.
Dall’ottobre 1914 alcuni membri del governo presieduto da Antonio Salandra si domandarono sino a quando l’Italia, la cui vita economica (consumi e produzione) dipendeva largamente da importazioni, soprattutto nei settori vitali (cereali, carbone, minerali ferrosi,…), avrebbe potuto rimanere neutrale. Sulle scelte pesarono non tanto i nuclei interventistici (nazionalisti, imperialisti,…) e riviste di modesta circolazione, quanto la posizione geografica e la vulnerabilità del sistema difensivo, che esponevano ad attacchi sia da parte dell’Intesa, sia da parte dell’Austria-Ungheria. Roma avviò trattative segretissime proprio con il fronte per lei più insidioso: l’Intesa. Con il Patto sottoscritto a Londra il 26 aprile 1915 s’impegnò a entrare in guerra contro gli Imperi Centrali. Il 3 maggio denunciò la vecchia Triplice con Vienna e Berlino e il 24 maggio scese in guerra contro l’Impero austro-ungarico.
La decisione fu imposta dalla durata della guerra: il cui prolungamento ebbe poi conseguenze devastanti in ogni ambito della vita pubblica e privata.
Vano fu l’estremo ed unico tentativo tenacemente perseguito da Giovanni Giolitti di trattenere l’Italia dal ricorso alle armi (specialmente contro la Germania nei cui riguardi non aveva alcun contenzioso) e coronare il Risorgimento in via diplomatica.
Per le elevate perdite umane subite e le profonde trasformazioni registratevi, il Piemonte ha motivo di riflettere sull’Italia nella Grande Guerra. Anche se non è magistra vitae, la conoscenza del passato impone responsabilità nelle decisioni odierne. Gli errori (insegnano le scelte del 1914-1915 e quelle del 1939-1940) si pagano per decenni, a volte per secoli, come appunto ripeté Giolitti. Invano.
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