(Andrea Guenna) – A proposito dell’ultima becera “dimostrazione di piazza” dei napoletani per quel ragazzo colpito a morte da un carabiniere perché non si è fermato ad un posto di blocco, pubblico volentieri una pagina della Storia del Risorgimento Italiano, tratta dal libro “Il Risorgimento Visto da Vicino” scritto dall’avvocato Carlo Grossi di Milano, un Maestro a me carissimo, storico appassionato e documentato, nonché altrettanto arguto e ironico nel suo scrivere, che mi ha fatto l’onore di essere, ancorché molto più anziano di me, mio amico. Ufficiale di Cavalleria di Complemento nell’ultima guerra mondiale, Carlo Grossi è stato un sincero monarchico e liberale, ammiratore di Luigi Einaudi. Ha scritto molto e i suoi manoscritti li ha regalati in parte a me, ed io li conservo gelosamente e forse, un giorno, li pubblicherò. Ci vuole del coraggio perché lì c’è la verità e la verità fa male. Come in questo delizioso brano in cui parla della Napoli del 1860 e della tormentata esperienza del povero Luigi Carlo Farini (nella foto-dagherrotipo) nominato da Cavour Luogotenente della città. Su tutto, emerge che in 154 anni il capoluogo partenopeo non si è evoluto mentre l’intera Italia si è “napoletanizzata”. Ecco cosa scrive Grossi.
Luigi Carlo Farini, medico di Ravenna emigrato a Torino, liberale moderato del gruppo di Cavour e uomo di fiducia dello stesso, persona intelligente ed integerrima, era Ministro dell’Interno nel 1860, ma aveva dovuto lasciare il Ministero a Marco Minghetti, perché dal Conte incaricato di andare a Napoli ad assumere la Luogotenenza in sostituzione di Garibaldi che, poco pratico di amministrazione, si faceva abbindolare da gente spregiudicata, molto più furba di lui, riuscendo a scontentare tutti. Al seguito del Re e dell’Armata Sarda in marcia verso la città partenopea, era presente all’incontro di Teano, in cui Garibaldi è stato con belle parole ringraziato, ma bruscamente licenziato.
Installato nella carica, non richiesta né desiderata, Farini è rimasto sconcertato per la situazione della città, specie per l’ordine pubblico e con lettera dell’11 novembre ne dava, preoccupato, notizia a Cavour.
Ne trascriviamo, qui di seguito, il testo con le sue prime impressioni: “All’ingrosso qui vedo che la servilità pubblica si acconcia a governo qualsiasi, che la pubblica cupidità non è saziabile, che qui comanda chi è più temuto, vuoi setta o governo. La polizia è in mano a quelli che prima ne erano percossi e tormentati: i contrabbandieri antichi governano la Dogana, la Finanza è stremata, le Provincie sono corse da briganti borbonici e da soldati garibaldini, che fanno più paura di quelli. Non è dunque l’Eden questa Napoli, ma spero di darvi presto notizie meno tristi”.
Solo tre giorni, però, gli sono bastati per perdere ogni speranza di trovare rimedi alla situazione e chiedeva, angosciato, a Cavour la propria sostituzione con lettera del 14 Novembre, che pure trascriviamo: “Ora io debbo pregarvi e scongiurarvi a tormi da questa orribile situazione. Lo stato di questo paese addimanda uomo di ben altra lena che io non abbia: di costà, credete a me, non giudicate nemmeno per approssimazione delle difficoltà che qui sono. Se il Parlamento nazionale non instaura, con la sua grande autorità morale, un poco di autorità effettiva, l’annessione di Napoli diventa la cancrena del rimanente Stato. Vedo che il giudizio che si porta di questa parte d’Italia non è conforme al vero: scusate se vi par che pigli aria dottorale: vediamo che questo periodo della annessione napoletana non segni il cominciamento della disgregazione morale dell’Italia”.
A questa lettera in sintonia con altre consimili di cui facciamo grazia al lettore per non ripeterci, faceva seguito quella inviata il giorno dopo a Minghetti, che l’aveva sostituito al Ministero degli Interni, ancor più chiara ed esplicita probabilmente per la maggior confidenza con il destinatario, della quale riporteremo i passi principali: “Se tu conoscessi, come comincio a conoscerla io, l’indole di questa gente, capiresti quante difficoltà si incontri ad esperire la più ordinaria pratica, anche solo comunale. Nessuna comparazione si può fare tra il costume di questo popolo con quello delle altre parti d’Italia. Scriveva ieri al Cavour come io non mi senta virtù e lena che basti a quest’opera, perché, amico mio, altro che Italia! questa è Affrica! (sic). I beduini, all’incontro con questi caffoni (sic) sono fior di virtù civile: questa moltitudine brulica come i vermi nel corpo marcio dello Stato: altro che “Italia e Libertà!: ozio e maccheroni!”. Questa è la capitale dell’ozio e della prostituzione, di tutti i sessi e di tutte le classi, quando nissun paese al mondo ha maggiori benefici naturali per diventare un emporio di commercio, di industria, di traffico”.
E se la prendeva con Cassinis, Ministro della Giustizia, che pretendeva un’amministrazione con l’applicazione delle Leggi e dei Codici, e continuava: “Che Codici d’Egitto! Per Dio! Non ha un soldo, ho trecento carabinieri e trentamila ladri (solo in Napoli, e non parlo di quelli non scritti sul Libro Nero), ho distretti in balia di briganti e non ho soldati da mandarvi, ho centomila postulanti d’attorno, i garibaldini che ringhiano, i nostri militari che tirano contacc (imprecazione piemontese, n.d.r.). Ciao, caro Minghetti, scusa lo sfogo che mi fa bene, saluta il Conte, vogliatemi tutti bene e pensate a liberarmi al più presto possibile”.
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