Irregolarità, proteste, schede sparite. Sono molti i dubbi sul voto del 2 giugno che nel 1946 condannò la monarchia. Uno storico ha dedicato anni di lavoro per esaminare archivi e consultare documenti. Ora ha deciso di pubblicare un libro. Ecco che cosa ha scoperto. Il 2-3 giugno 1946 gli italiani vennero chiamati a decidere se la preferivano alla monarchia e in quelle votazioni non si stabilì solo la forma dello Stato: fu anche eletta l’Assemblea costituente. In campo scesero 51 liste. La decisione di affidare ai cittadini la scelta tra monarchia o repubblica risaliva al 25 giugno 1944, 20 giorni dopo la liberazione di Roma e l’insediamento di Umberto di Savoia al vertice dello Stato, come luogotenente di Vittorio Emanuele III, che si mise in disparte. In Italia la guerra finì il 2 maggio 1945. I tedeschi si arresero agli angloamericani, che il 4 maggio assunsero il controllo dell’Italia settentrionale, prendendo sotto tutela le amministrazioni comunali e provinciali nominate dai comitati di liberazione nazionale. A fine giugno 1945 si formò il primo governo dell’Italia liberata, presieduto da Ferruccio Parri, esponente del Partito d’azione. A dicembre Parri fu sostituito dal Alcide De Gasperi, capo della Democrazia cristiana. Nel marzo 1946 quasi 20 milioni di cittadini elessero i consigli comunali di 5.580 comuni. Per la prima volta votarono anche le donne. Non si registrarono incidenti gravi. Maturità democratica e monarchia coesistevano. Il governo De Gasperi comprendeva ministri dei sei partiti del Comitato di liberazione nazionale: liberali, democristiani, Partito d’azione, democratici del lavoro, socialisti e comunisti. Con la sola eccezione di Leone Cattani (liberale) e Mario Cevolotto (Democrazia del lavoro), tutti i ministri erano repubblicani. All’Interno era il socialista Giuseppe Romita (nella foto), ministro per la Costituente il suo compagno Pietro Nenni, alla Giustizia il capo dei comunisti, Palmiro Togliatti. Il 16 marzo 1946 vennero indette le votazioni: il referendum sulla forma dello Stato e l’elezione dell’Assemblea costituente. Dal voto furono escluse le province di Zara, Pola, Fiume, Trieste e Gorizia, quasi completamente nelle mani della Iugoslavia comunista del maresciallo Tito, e quella di Bolzano, che non aveva alcun problema di ordine pubblico. Non poterono votare i prigionieri di guerra ancora trattenuti all’estero. Molti italiani non votarono perché «epurati». Parecchi di loro fecero ricorso e ottennero ragione, ma solo a referendum concluso. Secondo i dati ufficiali, pubblicati due anni dopo, i cittadini chiamati alle urne il 2-3 giugno 1946 furono 28 milioni. Il ministro dell’Interno dichiarò che il 5 per cento degli aventi diritto non venne rintracciato e quindi non ebbe il certificato che abilitava al voto. Sappiamo però che decine di migliaia di elettori attesero invano il certificato. Alcuni, invece, ne ebbero più d’uno. A Umberto II ne arrivarono due. Nelle Memorie, l’ammiraglio Antonio Cocco dice di averne ricevuti quattro. Quanti casi del genere si contarono? Romita fece stampare 40 milioni di certificati elettorali e 20 milioni di modelli sostitutivi. Decisamente troppi. La lotta pro e contro la monarchia fu durissima. Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III passò la corona al figlio, Umberto, e partì per Alessandria d’Egitto. Al Consiglio dei ministri Togliatti protestò violentemente perché, secondo lui, l’esule violava la «tregua istituzionale», decisa dal governo di Ivanoe Bonomi nel 1944, di cui le sinistre non avevano mai tenuto conto. Nenni minacciò: «La repubblica o il caos». Il ministro Giuseppe Romita proclama la vittoria della Repubblica. Il nuovo re sciolse i dipendenti pubblici dal giuramento di fedeltà affinché votassero in piena libertà di coscienza e compì un rapido viaggio per l’Italia. Fu accolto da masse festanti. Il 31 maggio da Genova annunciò che, se la monarchia avesse vinto, gli italiani sarebbero stati chiamati alle urne per confermare sia la nuova Costituzione sia la forma dello Stato. Fu un grosso errore: la controversia non poteva trascinarsi a lungo e, poiché divideva gli animi, in un modo o nell’altro andava chiusa. Votarono circa 24 milioni 950 mila cittadini: l’89,1 per cento degli aventi diritto. Che cosa accadde veramente nei seggi e nello spoglio delle schede? Impossibile dirlo con esattezza. Il 4 giugno De Gasperi confidò al ministro della Real casa, Falcone Lucifero, che la monarchia era in vantaggio. Nulla lasciava prevedere una rimonta. Invece, nella notte fra il 4 e il 5 Togliatti dichiarò a un anonimo giornalista del Corriere della sera che la repubblica avrebbe vinto con 2 milioni di vantaggio, perché, tenne a precisare, il 10 per cento dei democristiani aveva votato per la repubblica. Curiosamente, ci azzeccò. Il 10 giugno il presidente della Corte di cassazione, Giuseppe Pagano, fece leggere i risultati: circa 12 milioni 700 mila per la repubblica, 10 milioni 700 mila per la monarchia. Mancavano ancora gli esiti di 114 sezioni. Nell’attesa, chiuse la seduta senza dichiarare chi avesse vinto. Su 35 mila seggi si contavano 31 mila contestazioni. In aggiunta ci fu anche quella del monarchico Enzo Selvaggi, il quale chiese che la vittoria fosse calcolata non sulla base dei voti validi, bensì, come diceva la legge, su quella dei «votanti». Occorreva quindi tener conto delle schede bianche e di quelle nulle che, in un primo tempo, non furono nemmeno computate. La sera del 10 giugno si svolse un drammatico Consiglio dei ministri. Cattani disse che bisognava verificare bene i risultati. Togliatti replicò a muso duro che «forse» le schede erano già state distrutte. Così chiuse ogni discussione. In effetti sin dal 4 giugno decine di migliaia di cittadini denunciarono di non aver potuto votare. Molti non avevano ricevuto i certificati, altri scoprirono che qualcuno aveva già votato a nome loro e furono allontanati dai seggi. A migliaia gli analfabeti dichiararono di essere stati ingannati: avevano domandato come si votasse per la monarchia e i presidenti di seggio avevano detto che dovevano fare una croce sulla «regina», che in realtà era il simbolo della repubblica. Un numero incalcolabile di cittadini protestò con il comandante alleato in Italia, ammiraglio Ellery Stone, dichiarando che volevano votare monarchia e Democrazia cristiana o una lista monarchica. La repubblica non andò in vantaggio con una grande frode ma anche grazie a una miriade di piccoli brogli. D’altronde essa aveva ai seggi molti più uomini rispetto alla monarchia. La partita rimase aperta per giorni. Il primo a cedere fu Umberto II. Sin dalla mattina del 5 giugno ordinò alla consorte, Maria José, di lasciare l’Italia per il Portogallo. Alle 15.30 la regina partì dal Quirinale con i figli Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella e Maria Beatrice. S’imbarcarono a Napoli sull’incrociatore Duca degli Abruzzi, appena rientrato da Alessandria d’Egitto. Dopo due giorni di tensione, alle 0.30 del 13 giugno, pressato dal Consiglio dei ministri e col voto contrario del solo Cattani, De Gasperi assunse i poteri di capo dello Stato. Il re aveva cenato a casa di Luigi Barzini jr. Dormì al sicuro. Rientrò al Quirinale la mattina e ne partì alle 15 per Ciampino alla volta del Portogallo. Da re. Denunciò il «gesto rivoluzionario» del governo e De Gasperi replicò che a quel modo Umberto II chiudeva con una pagina indegna un periodo decoroso. Il 18 giugno la Corte di cassazione respinse a maggioranza il ricorso presentato dal monarchico Enzo Selvaggi. Contro il parere del procuratore generale e del presidente, la Corte stabilì che «votanti» non significava «chi vota» ma chi esprimeva un voto valido. Perché la Suprema corte sentenziò a quel modo? Semplice: se si fosse tenuto conto dei voti nulli (schede bianche, annullate e contestate, che erano circa 1 milione 500 mila) il divario tra monarchia e repubblica sarebbe sceso da 2 milioni a 250 mila. Una differenza minima, che avrebbe anche potuto rimettere in gioco il risultato. E poiché la verifica dei verbali di seggio era stata fatta alla svelta tra il 15 e il 16 giugno da 200 funzionari mandati da Togliatti a liquidare la cosa, a quel punto sarebbe stato necessario ricontrollare le schede. Ma sin dal 10 giugno Togliatti aveva detto che erano state distrutte. Così la partita fu chiusa. Il re ormai era in esilio, illuso di rientrare poco dopo. Dal 18 giugno la Gazzetta ufficiale iniziò a datare gli atti della Repubblica. Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la Carta costituzionale che all’articolo 139 dichiara immodificabile la forma dello Stato. Vittoriosa grazie a una controversa cifra di voti sulla quale pesavano gravi interrogativi, la Repubblica fu blindata: prima con la mancata verifica, scheda per scheda, della validità dei risultati. Poi con la Costituzione, che quasi 11 milioni di monarchici dovettero accettare.
Leave a Reply
Devi essere connesso per inviare un commento.