L’articolo precedente sulle medie-grandi centrali elettriche (superiori a 200 MW di potenza) non si era potuto completare per motivi di spazio, lasciando forse l’impressione di una quasi completa identità strutturale e operativa tra gli impianti a combustibile fossile e quelli nucleari (a combustibile… fissile). Ma tutti si rendono conto, anche facendo ipotesi errate, che la differenza è enorme, tanto che intere città scenderebbero in piazza per opporsi a qualunque iniziativa di utilità civica che contenga nel nome il termine “nucleare”. Una differenza è incontestabile, anche se spesso negata o trascurata dalle lobbies petrolifere, più che ambientaliste: la centrale elettronucleare non immette – o diffonde – nell’ambiente sostanze estranee a quelle cosiddette “naturali”, mentre qualunque centrale termoelettrica a combustibile chimico (che sia anche fossile non ha importanza) “inquina” in svariati modi e in questa “attività” è seconda, spesso di poco, alle sole naturalissime eruzioni vulcaniche, di superficie o sottomarine.
UN “MORTO NUCLEARE” FA PIÙ NOTIZIA D’UN “MORTO FOSSILE” O “SOLARE” O “EOLICO”
Allora cominciamo col dire che i dieci elementi strutturali e architettonici elencati nell’articolo precedente esistono tutti nei due tipi di centrali, ma la loro forma, configurazione (e robustezza) sono condizionate, oltre che dalla concezione dell’impianto, soprattutto dalle norme internazionali di sicurezza, che sono enormemente più rigide per gli impianti nucleari. Chissà perché: un morto (o anche solo ustionato leggermente) da incidente nucleare fa più scalpore di un morto, o anche molti morti, da incidente “fossile”; fin dai primordi, cioè da Hiroshima, si spiegava questo atteggiamento col “danno genetico” provocato dall’incidente nucleare, ma, a parte la battuta che un morto non può più fare danni genetici, e la constatazione che Hiroshima è, dopo 70 anni, più florida della stessa Florida, sembra che le preoccupazioni dei Padroni del Mondo siano ben altre e meno nobili. Per gli impianti nucleari comunque si prendono maggiori precauzioni contro le esplosioni, anche da atti terroristici, nonostante le temperature in gioco siano di gran lunga più basse (meno della metà, anche se le pressioni sono a volte più alte) che negli impianti “fossili”, temendo che un’esplosione metta in contatto con l’ambiente esterno (aria, acqua, terreno) sostanze radioattive, teoricamente assenti nelle centrali tradizionali (anche se non è del tutto vero). Questa giustificata precauzione è concatenata con molte altri provvedimenti: per esempio lo scambiatore di calore tra il nocciolo del reattore nucleare (cioè la parte contenente materiali originariamente e operativamente radioattivi) e l’ambiente delle turbine è oggi obbligatorio e non più facoltativo, in particolare nei reattori ad acqua pesante e ad alta pressione; i sistemi di allarme e di spegnimento automatico sono di gran lunga più numerosi, e ancor più lo saranno nelle future generazioni, se mai ci saranno; fra i materiali degli edifici (o comunque involucri, cupole coperchi) protettivi, oltre al normale calcestruzzo, deve essere presente uno spesso strato di piombo per impedire la fuoruscita di radiazioni gamma, di qualunque origine esse siano (le altre radiazioni ionizzanti, alfa e beta, sono bloccate a poca distanza dalla sorgente da qualunque normale schermatura usata in edilizia); la vasca di acqua, o di altro fluido, delle dimensioni di una modesta piscina di una villetta, in cui sono immerse le barre contenenti sferule di uranio, deve potere accogliere altri tipi di barre che hanno funzione modulatrice del flusso di neutroni e quindi del calore sviluppato dal fenomeno della fissione, fino all’arresto in caso di emergenza, ma si deve evitare tuttavia uno svuotamento eccessivo della vasca stessa perché l’uranio non raffreddato, ancora “ricco” ma privo di moderazione dei neutroni liberati dal fenomeno della fissione, si surriscalderebbe, l’acqua residua diventerebbe vapore, il vapore surriscaldato svilupperebbe idrogeno e ossigeno separati che formerebbero una nuvola esplosiva sopra la piscina con conseguenze preoccupanti, come è successo a Fukushima nel 2011, dove si sono verificate potenti esplosioni, peraltro contenute, prima di ripristinare il sistema di raffreddamento dell’uranio, che era prossimo a fondersi. Insomma, coi combustibili fossili è sufficiente interrompere la loro immissione nell’impianto per limitare in poco tempo le conseguenze di un guasto o incidente, mentre nel reattore nucleare, dove la carica di “combustile” durerebbe oltre un anno, le operazioni da eseguire sono molto più numerose, nonostante le autoregolazioni, gli automatismi e gli interventi manuali. Tutti gli inconvenienti descritti sono stati previsti e finora evitati nei reattori nucleari a fissione di terza generazione (cioè costruiti fino a trent’anni fa e oltre), con le sole ma gravi eccezioni (escludendo Three Mile Island (1979), che ha provocato solo l’evacuazione precauzionale di migliaia di residenti) di Chernobyl (1986) e di Fukushima (2011): nel primo caso un gruppo di scienziati pazzi accecati dalla vodka ha disattivato i sistemi di sicurezza per eseguire un esperimenti estranei alla produzione di energia; nel secondo uno tsunami di violenza senza precedenti ha superato in altezza e intensità tutte le barriere protettive che, pur sovradimensionate, in quell’occasione si sono dimostrate insufficienti (ma colpevolmente insufficienti furono anche i mezzi di intervento, a quanto si dice progettati con disattenzione e leggerezza). Che in entrambi i casi le vittime siano state relativamente poche (51 a Chernobyl, secondo il rapporto ufficiale dell’ONU, tutte addette all’impianto, zero a Fukushima, e senza apparenti “danni genetici”) non ha nessuna importanza: l’assenza di vittime a Fukushima dimostra soltanto l’efficienza dei soccorsi e l’abnegazione dei soccorritori, ma non cancella i difetti, che dovranno essere tempestivamente corretti (i colpevoli di Chernobyl, quelli sopravvissuti, saranno stati adeguatamente puniti). Ci si chiede soltanto come mai incidenti molto più numerosi (anche in percentuale rispetto al numero totale di impianti) e molto più gravi, non solo per le vittime, ma soprattutto per gli errori e la negligenza dei responsabili, non abbiano avuto almeno la stessa risonanza mediatica e “globale”; basterebbe citare un solo esempio, del 1973, con 161 morti sospette (valutate nel 1995) per vari tumori a fegato, pancreas e altri organi vitali, che non riguarda però la generazione di energia elettrica: l’esplosione nell’impianto chimico Icmesa di Seveso (Società svizzera, Givaudan, e non italiana, come sosterrebbero i maldicenti che si oppongono a centrali nucleari solo se fatte da “indisciplinati” e ignoranti Italiani).
FOSSILE E FISSILE
Ma dopo questa divagazione a moderata, e quasi rassegnata difesa delle tecnologie nucleari, la cui accanita avversione anche da parte di cosiddetti ecologisti è puramente strumentale, cioè politica e bellica, come dimostrano le vergognose trattative degli USA con l’Iran proprio in questi giorni (vergognose proprio perché conseguenti a un lunghissimo periodo di estrema ipocrita tensione tra i due Stati), proseguiamo con le differenze importanti tra le centrali di grande potenza a combustibile fossile e quelle a uranio fissile. Sono due le differenze fondamentali tra i due tipi di centrali termoelettriche (oltre alle citate condizioni di sicurezza prescritte per svariati motivi, non solo ecologici, alle centrali nucleari): l’uso dei combustibili e la classe di temperatura (e pressione) di esercizio; se non fosse per le suddette norme speciali (e sacrosante) di sicurezza, entrambe le differenze sarebbero almeno economicamente in netto favore dei reattori nucleari; importanti svantaggi si hanno sull’intercambiabilità. Del resto anche il bruciatore di una centrale (fossile) a carbone mal si concilia con quello di una centrale a gas, come è facilmente comprensibile. Si è accennato dunque al fatto che il “bruciatore” di una centrale nucleare è un sistema complesso che, fino alle attuali terze generazioni o terze avanzate, di cui la più vicina al completamento è quella di Olkiluoto in Finlandia (modello EPR plus) è una vasca piena d’acqua in cui si immergono in modo ordinato lunghi tubi (del diametro di pochi centimetri ma alti quasi dieci metri) contenenti sferette di uranio “arricchito” e, parallelamente un certo numero di barre la cui funzione principale è quella di controllare il flusso (la quantità) di neutroni che, spezzando (“fissionando”) i nuclei di uranio, generano enormi quantità di calore. La “carica” di barrette si fa più o meno annualmente, a centrale spenta, estraendo prima le barre “usate”, il cui materiale viene inviato al riprocessamento o al deposito delle scorie. Nelle centrali “fossili” invece il combustibile viene caricato in continuazione e con l’impianto in funzione.
IL FATTORE 1
L’aspetto “temperatura-pressione” invece condiziona soprattutto la conformazione delle turbine, i cui componenti devono tenere in conto le temperature in gioco e l’umidità dei fluidi che colpiscono le palette per fare ruotare le turbine. L’umidità, o comunque particelle liquide o solide, sono assai critiche per la durata dei materiali con cui entrano in contatto, che sono soggetti a usura, ossidazioni, sollecitazioni meccaniche indesiderate, eccetera, tanto più quanto più il fluido che li colpisce è distante dallo stato gassoso e dall’assenza di impurità. Ed è evidente che anche la temperatura di questo fluido, che sarebbe tanto più “secco” quanto più la temperatura è alta, non deve superare i valori che alterino, immediatamente o nel tempo, le proprietà fisiche o meccaniche dei componenti. In sostanza ci sono limitazioni superiori e inferiori nelle temperature che si possono usare per i gas (vapore acqueo compreso) che azionano le turbine. D’altra parte la necessità di usare al meglio le risorse energetiche porta come conseguenza l’esigenza di progettare ogni macchina con un rendimento che sia il più possibile vicino a 1, ossia l’energia disponibile per l’utilizzatore deve essere il più possibile tanta quanta ne viene immessa nell’impianto. Si è già detto che le perdite sono invece altissime, per esempio a causa dell’attrito; nel caso delle centrali termoelettriche una perdita notevole si ha al livello delle turbine, tanto che è difficilissimo, come vedremo, ottenere un rendimento vicino a 0,40 (o 40%). Al 60% di perdita in turbina si devono aggiungere tutte le altre cause nelle altre parti della centrale, a partire dal caricamento del combustibile e fino allo scarico in aria o in acqua del gas inutilizzato. Questo 40% è dunque un limite “fisico” praticamente insuperabile (a meno di affrontare spese eccessive) del cosiddetto “ciclo di Carnot” che nel caso ideale si manifesta col valore delle temperature massima e minima in gioco nel fluido che agisce sulla turbina. Se T1 è la temperatura assoluta massima e T2 la minima la formula del massimo rendimento raggiungibile è R=1-T2/T1 (si intende per temperatura assoluta o Kelvin quella in gradi centigradi a cui si aggiungano altri 273,4°). Dato che il ciclo di Carnot è una situazione ideale e perfetta è chiaro che il rendimento effettivo sarà sempre molto minore di R. Cogliamo l’occasione per dimostrare che anche un profano può arrivare a questi risultati: il vapore o gas che entra in turbina di un impianto a “fossile” può raggiungere circa 630° per non rischiare di fondere alcune parti della turbina, ma non può uscire “umido” per non ossidarla (oltre 200°?); tenendo conto dei suddetti 273°, otteniamo che T1 è circa 900 ° Kelvin e T2 540° e quindi R=1-540/900=0,40. E’ un vero peccato, anche se parte delle perdite (il vapore molto caldo in uscita) si recuperano al giorno d’oggi col “ciclo combinato” o col teleriscaldamento. Ancora peggio vanno le cose per i reattori nucleari, in cui è oggi sconsigliata l’alta pressione e di conseguenza l’alta temperatura (si parla sempre di turbine a vapore acqueo in cui il vapore in uscita deve essere molto secco): allora se T1 si abbassa di circa 300° il rendimento è intorno a 1-500/600=0,16, ed è anche per questo che sarebbe meglio potere usare nel nocciolo del reattore (che equivale al bruciatore dei combustibili fossili) temperature molto più alte, usando per esempio piombo fuso, che presenta anche notevoli semplificazioni dei problemi della sicurezza. La ricerca sui reattori a fissione basati su metalli o sali fusi procede tra grosse difficoltà, ma procede e alcuni impianti sono già stati realizzati e attivati.
Allo spinoso problema delle scorie radioattive, a cui il Corriere della Sera di oggi 20/11/2013 dedica un interessante articolo per quanto riguarda la situazione delle dismissioni italiane, sarà riservato un apposito capitolo e quindi conviene chiudere qui l’argomento “centrali termoelettriche a media-grande potenza” per passare alla questione principale, che è quella dell’”inquinamento ambientale”.
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