di Piercarlo Fabbio
Da tempo non esponiamo più i fatti della Resistenza, gli episodi di un periodo nodale della nostra storia. Non raccontiamo più gli eventi perché li riteniamo conosciuti. Come se la storia dovesse essere murata viva. Eppure come farebbe bene alla verità raccogliere ancora voci, informazioni, testimonianze, approfondimenti. Come farebbe bene alla verità aggiungere informazioni, conoscenza, smontare miti, individuare nuovi eroismi, differenti campi d’indagine, magari recuperando, ancor più di come finora si è fatto, la storia delle persone, le loro credenze, il loro modo di reagire alle sollecitazioni belliche, la loro umanità, il loro percorso di formazione politica o religiosa. Perché poi la ricerca della verità altro non è che percorso verso il bene e quindi la conoscenza della realtà non può che essere un elemento da considerarsi positivo. Eppure in così tanti anni, anziché usare il grandangolo sulla storia di un periodo tanto travagliato, quanto nodale per la nostra Nazione, si è finito per consolidarne il mito, quando non la leggenda. Ne è sortita una specie di allontanamento dal 25 aprile della maggioranza degli italiani. Certo, ci sono le celebrazioni, gli omaggi ai caduti, le sfilate delle autorità. I più fortunati sentiranno le note della banda e gli eletti magari assisteranno anche all’esibizione delle Frecce Tricolori, ma il problema rimane. In Italia la “liberazione” tende, sempre più, ad essere considerata una festa di alcuni (quanti siano è marginale), ma non di tutti. Festa che dovrebbe essere data fondativa della nostra Repubblica e della nostra Democrazia e che, invece viene vezzeggiata amorevolmente da alcuni e tranquillamente snobbata da altri. E, al massimo, molti finiscono per considerarla essenzialmente la data simbolo di partenza del nostro sistema politico. Un vero deficit di identità, perché il sottile distinguo è ben altro, affonda le radici nel Risorgimento, intendendo quest’ultimo come un episodio condotto da un’elite di intellettuali, di nobili e di politici, ma non concluso pienamente, interrotto dalla dittatura fascista, mentre la Resistenza è più incline ad essere realmente considerata un grande afflato partecipativo degli operai e dei contadini, delle popolazioni civili, degli studenti e dei militari alla ri-formazione di uno Stato unitario, cancellato dalla sconfitta della guerra e straziato dall’armistizio dell’8 settembre. Per cui non è errato ritenere, fin da subito, che la Resistenza si biforca: da una parte vi sono coloro che scelgono di combattere; dall’altra chi, invece, rimane nella società e si oppone contro il regime di occupazione nazista e contro la Repubblica Sociale Italiana. L’atteggiamento comune è però costituito “anzitutto da una ribellione morale, la scelta consapevole dell’umano contro il disumano” (Giovanni Barbareschi), perché si capisce fin da subito che il vulnus più forte al sentimento nazionale è la nascita della Repubblica Sociale. Senza Salò la Resistenza sarebbe stata inequivocabilmente lotta di liberazione dall’occupazione straniera, veramente un’ulteriore tappa del Risorgimento, una sollevazione contro l’oppressore, una rivolta patriottica. Con Salò calca la scena la guerra civile, la carogna dell’odio fratricida, che oscura le dimensioni del bene e del male. Con Salò si crea una “lacerazione interna al popolo italiano, con il suo seguito di sanguinose contrapposizioni, i cui effetti si sono sentiti per decenni e che ancora oggi perdurano” (Renzo De Felice) e tuttora si fa così fatica a superarle. E’ mai possibile che si sia ancora intenti ad arrovellarsi su quale contributo abbia effettivamente fornito la Resistenza alla liberazione del Paese, maggioritariamente condotta dagli Alleati? O se pure gli sconfitti abbiano la dignità di sedersi al tavolo della storia, perché in qualcosa di valido credevano anche loro e sinceramente hanno combattuto? O, ancora, se qui in alta Italia si sia effettivamente combattuta una guerra diversa, fino ad un certo punto unitaria, poi politicizzata in cui l’obiettivo delle formazioni resistenziali di matrice comunista fosse quello di affidare almeno una parte del Paese all’influenza di Tito o di Stalin? O, in aggiunta, se il contributo dei cattolici sia stato decisivo oppure nominalistico e debba giustamente essere trattato con sufficienza dall’ufficialità storica. O, tanto per seguitare con domande retoriche, come mai continui tuttora il mantenimento immutabile di una storia, senza portare coraggiosamente alla luce elementi nuovi o pure iperconosciuti, ma tranquillamente e sonoramente taciuti? Come mai, ad esempio, gente come Alfredo Pizzoni (presidente del CLNAI) o come Raffaele Cadorna (capo del Corpo Volontari della Libertà) sono oggi degli emeriti sconosciuti e i 35 mila soldati italiani morti in combattimento contro i tedeschi, i 78 mila che hanno perso la vita nei lager nazisti, dove furono internati oltre 600 mila militari italiani che rifiutarono di schierarsi con i tedeschi sono praticamente stati cancellati da quella storia ufficiale? E cosa pensare della Resistenza dei civili e della loro stoica sopportazione ai bombardamenti degli Alleati? Probabilmente ci manca non tanto un movimento storicamente revisionista – ormai opere ce ne sono e anche un modello storiografico si è imposto – quanto una sorta di Bad Godesberg della Resistenza italiana, dal nome della cittadina della Renania dove i socialisti tedeschi, dopo il crollo dello stalinismo e l’intervento sovietico in Ungheria, decisero di disfarsi di Marx e di fare a meno del materialismo storico. Ecco, mi pare questo il problema, i custodi della vulgata resistenziale devono decidere di lasciar cadere il loro approccio ideologico alla storia. Devono aprire menti e studi ad una memoria più diffusa e condivisa. Altrimenti ognuno andrà per proprio conto come già succede oggi e rischia ancor più di succedere domani. E magari a dichiarare che gli sconfitti, settant’anni dopo non vedono ancora riconosciuta la dignità di aver partecipato alla storia. La pena per questo percorso è l’autoconsunzione del 25 aprile nella memoria di un popolo. Ma noi abbiamo detto e abbiamo scritto che Alessandria non dimentica anche se poi la storia si incarica di indicare i vincitori e i vinti: gli uni hanno ragione – o l’hanno avuta – gli altri subiranno le ragioni dei primi. In questi anni il progressivo distacco dei testimoni del tempo dalle avversità del loro tempo ha fatto ritenere che ciò bastasse per ricollocare gli eventi in una dimensione più veritiera, forse più asettica, meno leggendaria. Non è stato così: l’antifascismo, immediatamente osannato, giustamente vincitore, è diventato una categoria politica, prima ancora che una categoria etica, come invece avrebbe potuto essere prima di ogni altra cosa, perché la scelta di tanti giovani era giusta non per le conclusioni vittoriose delle loro azioni, ma per i valori che la sottendevano e di cui oggi possiamo quasi discutere con il distacco del filosofo nella società della turbolenza. Ed aderire ad una versione della storia, forzatamente dettata dai vincitori, è stato forse un limite, che coloro che si sono sacrificati, coloro che hanno deciso di rifiutare il richiamo delle istituzioni in allora vigenti, l’arruolamento nella Guardia Nazionale Repubblicana, probabilmente non volevano, perché consci di trasgredire in nome della libertà, consapevoli, in molti, di poter sconfiggere il nemico, ma sfidando la morte, coscienti – i più lucidi – che passare attraverso il sacrificio della loro stessa esistenza sarebbe stato necessario, indispensabile, obbligato. Così le mille sfaccettature della Resistenza devono essere recuperate, almeno nei due cardini essenziali che l’hanno sostenuta: la Resistenza Carità e la Resistenza Rivoluzione, sapendo che molta parte dell’unità della nazione, in periodi di orrenda violenza, fu paradossalmente garantita dalla carità e dal ruolo dei sacerdoti, che seppero sfidare il disumano al di là delle divisioni politiche. Sono stati protagonisti della pacificazione nazionale attraverso la pietas, l’accoglienza, la tenacia nel voler far prevalere l’uomo sulle sue brutture. Religiosi come Don Carlo Torriani e Don Antonio De Martini, tanto per fare solo alcuni nomi, sono il simbolo di questa resistenza molto sottaciuta. Poi vi erano coloro che avevano risposto al richiamo istituzionale della Repubblica Sociale, pensando magari che tale simulacro di Stato fosse ancora in grado di essere fabbrica di certezza tra il bene e il male. Comprendo come in quel periodo di massima confusione e di povertà informativa fosse difficile per il singolo giovane operare una scelta razionale, organica, meditata. E non do un giudizio storico. So benissimo la differenza fra chi combatteva per la libertà dall’oppressore e chi, erroneamente, si era arruolato tra i repubblichini, tentando di rifondare un’altra Italia, che magari era stato educato a concepire tale in modo esclusivo. La buona fede è una categoria dello spirito. Serve alla redenzione individuale, non a quella storica. So anche che queste due Italie sono state sfruttate a livello politico per potersi sedere ai tavoli della Pace, senza essere considerati totalmente sconfitti. È De Gasperi il padre di questo ragionamento politico, che finisce per impacchettare la Guerra di liberazione in categorie manichee e schematiche. Lo statista trentino, a Parigi, doveva dimostrare che vi era una nuova Italia, passata attraverso l’antifascismo clandestino, poi cobelligerante, poi Partigiana e che questa nuova Italia aveva combattuto per due anni al fianco degli Alleati. Doveva differenziare l’Italia degli italiani da quella del fascismo. La libera scelta dall’imposizione. La libertà dalla dittatura. E forse la congiunturalità indispensabile del ragionamento dell’epoca è oggi un freno alla considerazione delle mille sfaccettature di quell’Italia sbrecciata e sfigurata dall’inconsistenza politica che avrebbe dovuto invece farla vivere nell’unità nazionale. Ecco il mito parte di qui, ma come detto, abbiamo bisogno di storia e non di leggenda. Non vi è nulla di magico e di incantato nel raccontare la guerra. Vi è un’emozione profonda, un magone continuo, un brillìo impalpabile degli occhi, uno stato costante di malessere. Ma se si vuole entrare nel fenomeno per chiarificarlo, dobbiamo avere il coraggio di passare per le forche caudine del sentimento ferito. Oggi, del resto, potrebbe apparire quasi un esercizio retorico il discutere di democrazia, il dibattere sulla libertà. L’uomo, soggetto di diritto, ha una propensione connaturata ad appropriarsi di sempre maggiori spazi di libertà. L’unico suo limite sta nel non invadere il campo della libertà altrui. Assistiamo, forse un poco disillusi, ad una nuova forma di egoismo di massa, quando vi sarebbe invece bisogno di reimmettere nei nostri sistemi sociali più solidarietà, più altruismo, più generosità. Eppure il percorso è questo, pare inarrestabile. Si è solamente disposti a cedere tozzi di libertà individuale in cambio di una sola speranza: quella di possederne di più. Domani. La libertà e il suo prodotto per gestire le comunità – cioè la democrazia – sono dunque faglie mobilissime, ma oggi abbastanza stabili, forti, sentite come certe dalla maggioranza dei nostri connazionali. Eppure esiste un percorso storico, che ogni tanto l’uomo sospende con l’innegabile sprezzo della sua stessa identità, a cui nella storia occorre guardare con maggiore intensità, pena il non comprendere le ragioni seguenti del suo diniego e del suo superamento. Uno di questi obnubilamenti, uno di questi nascondimenti è da ricercarsi nelle ragioni che reggono per un ventennio il fascismo al potere. Forse solo capendo questo, anziché cancellarlo, si riesce a carpire il senso della straordinaria azione dei partigiani, si può tentare di riconoscere i motivi di una guerra nella guerra, di un paese diviso in due, di italiani che decidono strade diverse, che si combattono aspramente con un odio che solo un conflitto biblicamente fratricida può scatenare. E si può comprendere come il 25 aprile 1945 Alessandria accolga festante i partigiani e gli alleati come i veri liberatori. Quell’Alessandria che allora seppe scegliere senza ombra di dubbio il percorso del riscatto dalla sua stessa storia, per cogliere senza illusioni il difficile cammino della libertà.
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