LA PROBLEMATICA DELL’ORFANO, OVVERO: IL CALCIO GIOVANILE E QUELLO GIOVANILISTICO MANDROGNO
Dal Mocca di Alessandria – Erano gli anni ’60, era il Milan ed era un calcio dove l’allenatore si chiamava “mister” e nessuno, a parte il presidente e qualche carismatico giornalista, osava metterlo in discussione. Ebbene, già allora c’era il problema dei genitori dei ragazzini che militavano nelle giovanili rossonere, al punto che, si dice, una volta Nereo Rocco sbottò: “L’allievo calciatore ideale deve essere…orfano!”. Certo, il Paron amava stupire ma il tema era già d’attualità allora, non solo nelle Società sportive giovanili, ma addirittura nel Milan. Oggi sono tante le società, dalle più piccole fino a quelle professionistiche, che non solo non si pongono “la problematica dell’orfano” ma quando individuano un ragazzino interessante da tesserare si chiedono anche di che pasta sono i genitori e la domanda non riguarda l’educazione impartita al pargolo. Nei casi più eclatanti infatti basta un genitore che anela vedere la propria creatura militare in due o tre categorie superiori alle sue capacità comprovate e ci sta che finanzi o addirittura compri un club in difficoltà, risolvendo così crisi societarie senza speranza. Parlo di episodi limite, ma più frequenti di quanto si pensi. Nella fattispecie poi sono tutti contenti perché ognuno ottiene quello che vuole mentre il “rampollo dalle uova d’oro” ritornerà nelle retrovie non appena il munifico genitore si stuferà di foraggiare.
Addirittura più subdola e dannosa è invece l’abitudine invalsa in tante realtà piccole (ma anche grandi) di arruolare allenatori, ragazzini e genitori come fossero una cosa sola. I mister, oltre ad allenare calciatorini e, unitamente, allenare padri e madri, costruiscono una simbiosi mutualistica perversa e così, quando si spostano da una società all’altra, si muovono in comitiva, tutti assieme, come turisti di Avventure nel Mondo. Se ci si affida a siffatti modelli una cosa è certa: non uscirà mai un mezzo giocatore ma ne trarranno vantaggio solo la vanagloria dei genitori, lo stipendiotto del mister e le giornate passate all’aria aperta. Orbene, credo che il Settore Giovanile dell’Alessandria targata Di Masi non possa cadere in queste trappole dove i dilettanti pensano e i professionisti si limitano a prendere i soldi senza portare professionalità e valore aggiunto. Tentando di sbirciare lo stato dell’arte del settore giovanile dell’Alessandria Calcio e, prima di ogni altra valutazione più o meno centrata, ricordiamoci bene che si arriva dal disastro Veltroni seguito dalla faticosa ripartenza della gestione Debernardi e viviamo l’oggi pensato e gestito da Capra e dai suoi collaboratori. Il primo dato che non convince riguarda la spesso vittoriosa Berretti la quale vince sì le partite ma con una rosa sostanzialmente formata da ragazzi del ’94, con qualche innesto del ’93 (?) e due mosche bianche ’95. Domanda facile facile: a che ( ma possiamo dire anche “ a chi”) serve una squadra così costruita, a prescindere dal valore dei ragazzi in questione, quando affrontano avversarie con una media di 15 o 16 anni in meno in distinta? Dove andranno a giocare il prossimo anno i nostri Berretti tenendo conto che il miglior prodotto dell’ annata scorsa ( Pasino) non gioca in Eccellenza? Ok, ho citato un caso senza approfondirlo e non intendo generalizzare ma l’esempio è significativo per capire cosa chiede il mercato dei dilettanti in tema di qualità e anagrafe. Certo, vedersi citati in formazioni vincenti per i ragazzi è un punto d’orgoglio ma se vogliono davvero diventare calciatori perché non mettersi alla prova in campionati “veri” senza perdere anni preziosi nelle giovanili? Ci sono degli alessandrini del ’95 nella rosa di squadre di C2 che vivono e studiano a 1000 chilometri da casa: non so se diventeranno giocatori ma almeno ci provano. Luca Di Masi, appena arrivato, ha subito “alzato l’asticella” alla prima squadra e, nonostante qualche malcelato mugugno, ha messo lo staff e i giocatori davanti a responsabilità legittime e motivate. Adesso, non appena sarà messo mano al settore giovanile mandrogno, dobbiamo aspettarci un identico approccio da parte della società e, se tanto mi dà tanto, salteranno come tappi a Capodanno certi personaggi che non sono in linea, né dal punto di vista professionale né comportamentale, con un nuovo “stile” di cui si sente tanto la mancanza. Certo, non si può fare tutto e bene in pochi mesi ma partire col piede giusto è indispensabile. Perché non sognare di avere tra un po’ anche noi un vivaio in cui il responsabile tecnico non verifichi settimanalmente il lavoro degli allenatori e questi siano chiamati a rendere conto non solo coi risultati sportivi ma soprattutto con la crescita settimanale del collettivo e del suo atteggiamento tattico e mentale? Solo così si cresce, maturano i futuri titolari fatti in casa e l’investimento nel lungo periodo di energie, di soldi e di professionalità può portare a risultati ormai indispensabili per una sana gestione di un club come il nostro. Anche la creazione di una rete di osservatori che operano sia sul territorio che nelle regioni vicine, compresa la conoscenza minuziosa di tutte le Primavere delle grandi squadre, è un lavoro duro ma indifferibile e, il tutto, penso debba essere affidato a professionisti conclamati dotati di esperienza, cultura calcistica e voglia di stare al passo con le nuove metodologie. “Nei settori giovanili sarà determinante trovare formule comuni e allenatori che vogliono insegnare calcio, non tecnici che usano i giovani come cavie per mettere alla prova se stessi”, così la pensa Massimiliano Allegri il quale, tra Sassuolo, Cagliari e Milan non si può negare che abbia lavorato a fianco a fianco del settore giovanile. Il ragazzino a 12 anni è pronto per essere plasmato e migliorato, per acquisire basi tecniche, tattiche, mentali, comportamentali e psicologiche importanti, per cominciare a lavorare in gruppo e per il gruppo. Nella nostra città, oltre a Manueli, ci sono una serie di personaggi che hanno tutte le caratteristiche tecniche, morali e carismatiche per lavorare con profitto sui più giovani (Scarrone, Papalia, Artico, Ferrarese e Daniele Daino, i primi che mi vengono in mente); ebbene, a parte il primo che allena i ’94, nessuno di loro lavora per i Grigi. Forse rinunciare a un senatore e con i soldi risparmiati investire su ragazzini di prospettiva, allenatori bravi, scouting e gratificare qualche procuratore che ti appoggia talenti in erba non è una buona idea? Se vogliamo crescere davvero e tutti assieme sì. Se invece si sceglie di sottostimare l’importanza, in questa nuova alba del calcio, di un rapporto privilegiato con il proprio settore giovanile allora saremo destinati a non crescere mai, a gestire il minimo sindacale, a parlare sempre del passato senza mai intravvedere un futuro e a strapagare mezze figure che vogliono farci credere che il Signore è morto dal freddo.
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