OLTRE ALL’IRRINUNCIABILE CARNEVALE, OGGI CADE L’ANNIVERSARIO DELLA TRAGEDIA DELLE FOIBE: OLTRE 10.000 ITALIANI D’ISTRIA E DALMAZIA, TRUCIDATI, DOPO IL 1943 E A GUERRA FINITA, DAI PARTIGIANI COMUNISTI IUGOSLAVI DI TITO
Alessandria a.g. – Per chi non ha ancora capito cosa significhi essere liberale – non liberista -, cioè cosa si intenda quando si dice che una persona ascolta, non giudica ma decide per il meglio, che prima di scegliere studia (“Conoscere per deliberare”, Luigi Einaudi), che sente le ragioni del cuore (Pascal), che vive una libertà cosciente (la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri), che preferisce il primato dell’individuo, universo isola, microcosmo perfetto, all’indistinta, confusa, ignorante dittatura della massa (fascista o comunista non importa, perché entrambe frutto del pensiero socialista), nel giorno dedicato alle vittime delle Foibe e degli esuli istriani, fiumani e dalmati del secondo dopoguerra, tragedia nascosta dai comunisti da sempre complici dei Titini (i comunisti slavi agli ordini del Maresciallo Tito), e usata come propaganda dai neofascisti complici dei beceri colonizzatori fascisti dell’epoca, vogliamo riproporre le parole di un grande liberale, Enzo Bettiza, nato a Spalato da padre italiano, oggi ottantaseienne. Nella sua biografia si legge: “Il padre apparteneva alla allora nutrita minoranza italiana di Spalato. Ancora negli anni venti la fabbrica cementifera Gilardi e Bettiza era la più importante industria della Dalmazia. Negli anni venti, come consentito dal Trattato di Rapallo, la famiglia aveva optato per la cittadinanza italiana, pur risiedendo in territorio jugoslavo. Dopo la Seconda guerra mondiale la famiglia Bettiza fu espropriata dei propri beni ed espulsa dalla Jugoslavia”. Bettiza, oltre ad essere un grande giornalista, cofondatore del Giornale Nuovo con Indro Montanelli, è quindi un testimone oculare della vicenda istriana e lasciamo a lui la parola riproponendo un suo articolo pubblicato su La Stampa il 13 febbraio del 2005.
“Il binomio stesso di «memoria condivisa» ha in sé qualcosa di consociativo, di bipartisan, di politicantesco. Qualcosa che con altre parole potrebbe evocare una nuova forma di compromesso storico: una sorta di patto di non aggressione fra una sinistra decomunistizzata, improvvisamente autocritica dopo mezzo secolo di silenzio sulle foibe e sull’esodo, e una destra defascistizzata, pervicacemente rivendicativa, che per mezzo secolo aveva continuato a parlare dell’esodo e delle foibe nelle piazze in termini demagogici, ultranazionalisti, antislavi, insomma assai poco europei. Tracciare gerarchie del male è spesso operazione opinabile e sconsolante. Tuttavia, a quelli che più hanno levato la voce sulla nefandezza delle foibe, come non ricordare che i loro precursori avevano dato nel 1920 alle fiamme l’Hotel Balkan, centro culturale degli sloveni di Trieste, trasformando la città e il contado in un poligono di prova dello squadrismo che di lì a poco sarebbe dilagato per l’intera Penisola? L’intreccio straordinariamente complesso e variegato delle storie e dei tragici paradossi adriatici e danubiani, che coinvolgevano di volta in volta italiani d’Oriente e slavi d’Occidente, hanno radici insieme lontane e vicine. Sottigliezze culturali, sfumature religiose, inestricabili grovigli etnici e semantici che davano cognomi slavi a nazionalisti italiani e cognomi italiani a nazionalisti slavi, si rincorrono per due secoli pieni di fermenti culminati alla fine nell’orrore e nella strage: dai moti liberali e risorgimentali dell’Ottocento, su blando sfondo asburgico, ai feroci fascismi e comunismi di frontiera su sfondo mussoliniano e poi titoista. Ma che ne sanno di tutto questo coloro che oggi piangono in toto il destino degli esuli? Piangono, si pentono, si emozionano davanti a un filmato sulle foibe carico di melassa, di errori e di omissioni, senza darsi la briga di conoscere più a fondo l’oggetto del loro rimorso postumo. Senza distinguere il carattere e il retaggio dell’esule istriano da quelli dell’esule dalmata, senza cogliere il dramma di contadini sloveni e croati a loro volta trucidati da partigiani comunisti serbi o montenegrini, ignorando che nel quadro asburgico Fiume e Abbazia facevano parte del regno d’Ungheria, mentre Trieste, Istria e Dalmazia, che non è mai stata tutta italiana, appartenevano all’impero propriamente austriaco. Ha avuto più d’una ragione l’esule Kundera a intitolare “L’ignoranza” il suo ultimo quanto desolato romanzo. Il malinconico racconto descrive due personaggi d’esilio, la cui identità traumatizzata resta due volte ignorata, due volte offesa e fraintesa, sia nell’Occidente sazio dove si sono rifugiati, sia nella grigia Cecoslovacchia post comunista dove ritornano nel vano tentativo di trovare qualche ombra del passato fra parenti e amici rimasti in patria. Non ritrovano altro che sordità, meschinità, volgarità. L’incomprensione che li circonda a Praga rafforzerà lo spessore dell’ignoranza e dell’indifferenza che riprenderanno a circondarli a Parigi e a Copenaghen. Kundera ci dice per esperienza personale che la memoria dell’esule è solitaria, irraggiungibile, incomunicabile: non condivisibile con nessuno per nessuna ragione. Colui che interroga un esule, che cerca di indagarne la memoria reticente e contratta, può ottenere una risposta imprevedibilmente contraria a quella che aspettava di ottenere. Ho assistito a una recente trasmissione di “Porta a Porta” dedicata, per l’appunto, all’esodo e alle foibe, inframmezzata da alcune sequenze strazianti del filmato “Il cuore nel pozzo”. Ad una vittima presente nello studio di Vespa, un’anziana signora istriana, è stato chiesto quali sentimenti provasse oggi per gli slavi. Ha risposto: «Per la servitù slovena, che veniva dalla campagna e ci accudiva nella nostra casa di città, provo solo simpatia e nostalgia. Le ragazze piangevano e ci aiutavano quando ci preparavamo all’esodo». Ad un’ altra signora istriana, che ha passato lunghi e umilianti anni in un campo profughi nei pressi di Vicenza, è stato chiesto se provasse ancora rancore per qualcuno. La risposta è sgorgata secca e strabiliante: «Si, per gli italiani, che spesso ci hanno trattato come intrusi indesiderati». Due casi di memoria certamente più divisa che condivisa dal pubblico emozionato, ma ignaro, che aveva appena visto le scene di un filmato in cui i soldati jugoslavi, chiamati solo «titini» e mai comunisti, organizzano il progrom che sfocerà nell’infoibamento col disciplinato rituale funerario di plotoni che ricordano la Wehrmacht tedesca. La verità storica, per quanto ne so, s’era suddivisa invece in due fasi distinte. La prima, subito dopo l’8 settembre 1943, aveva visto plebi rurali slovene e croate sollevarsi contro i «signori», in gran parte italiani, ma non solo, che a centinaia subirono aggressioni mortali. La seconda fase, più legata al terribile martirio delle foibe, in cui perderanno la vita migliaia di istriani, si snoda sul finire della guerra a partire dal 1945. Qui il copione segue quello applicato dalla polizia segreta sovietica alle popolazioni caucasiche, in particolare cecene e tatare, accusate di connivenza con gli occupanti germanici: la caccia all’uomo si dispiega alla svelta, alla rinfusa, di notte, in un incrocio di delazioni, vendette private, rapimenti in parte mirati in parte casuali; dopodiché si compirà la deportazione per alcuni e l’eccidio di massa per i più nei baratri carsici. Si deve poi distinguere la sorte toccata agli italiani dell’ Istria da quella che colpì gli italiani della Dalmazia, dove fu il mare, anziché la foiba, a svolgere la funzione del carnefice che inghiotte e non restituisce la vittima. Due erano le particolarità degli italiani dalmati rispetto agli istriani. Anzitutto non rappresentavano una maggioranza etnica ma una minoranza aristocratica, borghese e linguistica nelle grandi e piccole città delle costa e nelle isole; l’altra particolarità, intimamente connessa alla prima, era la loro stretta mescolanza per matrimoni e parentele alla borghesia slava che qui era molto più sviluppata e influente che in Istria. Mia madre, figlia di un magistrato asburgico, era slava pur parlando alla perfezione, come il nonno giudice, anche il nostro antico dialetto veneto. Parimenti la madre di Ottavio Missoni, nato a Ragusa, oggi sindaco «in esilio» della città di Zara, era una nobile d’origine slava. Ogni volta che m’incontro con l’amico Ottavio, parliamo per due terzi in veneto e per un terzo in croato. Con Frane Barbieri, nato a Makarska, che conosceva l’italiano ma non il dialetto veneto, parlavo invece prevalentemente in croato. Il bilinguismo era comunque uno dei nostri connotati salienti: eravamo e siamo bilingui di lingua, d’animo, di mente. La nostra italianità era, è culturale più che etnica, e quindi più che altrove è duplice e drammatica. Tant’è che i grandi dalmati dell’Ottocento, il bilingue Tommaseo di Sebenico, il bilingue Bajamonti podestà di Spalato, il bilingue Lapenna, brillante capobandiera del liberalismo autonomista zaratino, si consideravano italo-slavi e la loro politica linguistica si differenziava nettamente da quella degli italiani di Trieste e di Fola. Il loro autonomismo, in sintonia col realismo di Cavour, non perorava l’unione della Dalmazia all’Italia bensì la separazione dalla Croazia ungherese e il mantenimento del legame lealistico con l’Austria. Autonomismo e bilinguismo erano nella Dalmazia austriaca sinonimi: non a caso la maggioranza autonomista della Dieta provinciale dalmata volle proclamare la libertà d’uso dell’italiano e del serbocroato nei lavori dell’assemblea. Conquistata nella seconda metà dell’Ottocento l’egemonia politica in Dalmazia, i nazionalisti croati, sempre tesi all’integrazione con la Croazia, imposero che l’italiano fosse eliminato come lingua d’istruzione nelle scuole e andasse insegnato come lingua straniera: fu così che mio padre, prima di recarsi alle università di Graz e di Vienna, dovette frequentare a Spalato la Realschule serbocroata. Questo complesso stato di cose faceva dire nel 1866 all’insospettabile Giuseppe Mazzini: «Per condizioni etnografiche, politiche, commerciali, nostra è l’Istria: necessaria all’Italia come necessari sono agli slavi i porti della Dalmazia». Ma torniamo a Zara. Era questa l’unica città dalmata a netta prevalenza italofona: l’unico dei maggiori centri urbani che venne ceduto, con l’isola di Lagosta, all’Italia negli anni dopo la prima guerra. Non solo l’oligarchia imprenditoriale del porto franco zaratino, ma la gente semplice, marinai, scaricatori del porto, camerieri di caffè, bidelli e uscieri parlavano tutti il dialetto veneto. Mentre sul finire della seconda guerra le minoranze italiane della costa e delle isole erano ormai scomparse – la mia famiglia legata per industrie e commerci all’autonomismo bajamontino fu una delle ultime a lasciare, nel 1945, Spalato dominata dai comunisti – i numerosi italiani o italofoni di Zara dovettero subire un lungo calvario: ben 54 bombardamenti angloamericani consumarono per conto loro una indiretta pulizia etnica dell’enclave italiana, trasformando la bella e antichissima città, che aveva difeso a sangue la propria indipendenza anche contro Venezia, in una triste Dresda dell’Adriatico. Poi vennero i soldati di Tito. Essi portarono a termine l’ecatombe, cancellando negli uomini e nelle pietre perfino il ricordo antropologico e architettonico della più romantica delle vecchie città illiriche. Finirono annegati nel mare, spesso legati dentro gabbie, 900 zaratini, fascisti e non fascisti, italiani e qualche croato o albanese del Borgo Erizzo. Due eminenti cittadini, i fratelli Luxardo, eredi della ditta produttrice del famoso maraschino, scomparvero nelle acque e vennero postumamente condannati come «nemici del popolo». Altre migliaia, quattro, cinque, forse di più, erano perite sotto le bombe americane. Negli esodi e nei massacri la contabilità è quasi sempre incerta. Alterano le statistiche, per difetto o per eccesso, i dispersi senza volto e senza numero. La memoria di tanti zaratini, fuggiaschi da una all’altra sponda dell’Adriatico, è una memoria di naufraghi per niente allegri. Quelli che dopo il 1943 sbarcarono sfiniti nel porto di Ancona vennero accolti con un fitto lancio di uova marce; all’incirca nella stessa epoca il bicchier d’acqua verrà negato agli assetati profughi istriani nella stazione di Bologna. Io, per mia scelta e fortuna, ho evitato di subire simili oltraggi dai «connazionali» della «madrepatria». Da buon dalmata solitario ho sempre evitato, nei miei contatti con i «regnicoli», di far loro sapere con precisione geografica e genetica chi fossi e da dove venissi. D’altronde, solo pochi conoscevano il nome italiano dei luoghi vicini e pur lontanissimi da cui provenivo. Dirò di più. Non ho mai fatto gruppo, cordata piagnistea, l’esule di professione, ho sempre scansato raduni associativi con bevute e canti nostalgici nel nome di un profugato «giuliano» che non ho mai ben capito che cosa significasse. Ho subito da giovane gli insulti della miseria, ho accettato fino in fondo il rischio individuale, muovendomi nel mestiere e perfino nell’agone politico da cittadino italiano fra cittadini italiani, senza elemosinare pane né sconti per il fatto di aver lasciato alle spalle la terra perduta. In tempi andati certi irredentisti triestini, perfino quelli del Melone, mi consideravano come «traditore» per aver scritto “Il fantasma di Trieste” ispiratomi dalle triestinissime pagine di Angelo Vivante e di Scipio Slataper. Forse, queste ultime righe sono di troppo. Sarebbe però inopportuno pentirmi e cancellarle all’ultimo momento, in chiusura di pagina. Esse sigillano spontaneamente, all’ insegna del «mai detto», una serie di scritti e di memorie elaborate per l’archivio del «non detto». Pudore e convenienza forse consiglierebbero di togliere anche altre cose rievocate e confessate in questo congedo dal lettore mio complice. Ma, appunto perché mio complice, il farlo sarebbe oltremodo sleale verso di lui e verso me stesso”.
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