Dal 1971 al 2010 l’Italia ha perso il 28% della superficie agricola, pari ad un’area grande come Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna messe insieme, e ciò ha causato la riduzione in ettari del 26% di seminativi; di prati e colture permanenti, rispettivamente il 34 e 27%, mentre l’agricoltura italiana soddisfa soltanto più l’80% del fabbisogno alimentare.
di Renzo Penna
Vista la conclamata natura “tecnica” dell’attuale Governo una certa sorpresa ha suscitato la presentazione nel mese di luglio, da parte del ministro dell’Agricoltura Mario Catania, del disegno di legge: “In materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo”. Addirittura “coraggiosa”, per il Presidente di Slow Food Carlo Petrini, la decisione di inserire nel testo l’abolizione dell’uso da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente. Una decisione “politica”, ma quanto mai motivata, quella del ministro visto i dati di un recente rapporto del ministero per le Politiche agricole sulla cementificazione e la riduzione della Superficie Agricola Utilizzabile. Dal 1971 al 2010 il Paese – secondo la ricerca – ha perso il 28% della “Sau”, un’area grande come la Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna insieme, e ciò ha causato la riduzione in ettari del 26% di Seminativi, di Prati e Colture permanenti, rispettivamente il 34 e 27%, mentre l’agricoltura italiana soddisfa soltanto più l’80% del fabbisogno alimentare.
Una denuncia che, per parte sua, lo storico d’arte Salvatore Settis aveva anticipato nel 2010 quando, prendendo a riferimento il periodo 1990-2005, documentava che in Italia la Superficie agricola utilizzata si era ridotta di 3.663.000 ettari, un’area più vasta della somma di Lazio e Abruzzo. E accusava: “Abbiamo convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17,6% del nostro suolo agricolo. Il record assoluto spetta alla Liguria, dove la contrazione della Sau raggiunge il 45,55%, seguita dalla Calabria con il 26,13. E ben poco conta il colore politico delle amministrazioni…”.
Ma perché Petrini giudica “coraggiosa” la proposta di abolire l’utilizzo degli “oneri di urbanizzazione” come spesa corrente da parte degli Enti locali più prossimi ai cittadini e al territorio? Il mutamento normativo introdotto nel 2001 che ha riguardato i contributi corrisposti al Comune da chi costruisce un nuovo edificio o modifica la destinazione d’uso di un edificio preesistente ha incentivato le conseguenze distruttive, che proseguono, sul già martoriato paesaggio italiano. Nel 1977 la legge Bucalossi aveva correttamente stabilito che tali risorse dovevano essere utilizzate dai comuni per coprire le spese di effettiva urbanizzazione e per null’altro. In particolare per fornire, nelle aree dei nuovi insediamenti, i servizi necessari (acqua, gas, strade, fognature, raccolta rifiuti, illuminazione, asili nido e scuole materne, spazi di verde attrezzato, impianti sportivi e centri sociali di quartiere…). Questo sano principio, rimasto in vigore per oltre vent’anni, è stato inopinatamente abrogato da una norma del “Testo unico per l’edilizia” approvato il 6 giugno 2001 negli ultimi giorni di vita del governo Amato. Autore della cancellazione il ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini, che la giustificò come un “omaggio” all’autonomia finanziaria dei Comuni. Nella realtà l’eliminazione dell’art. 12 della legge Bucalossi ha dato loro la possibilità di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per finanziare, fino al 75%, le spese correnti e questo fatto, coincidendo con le crescenti difficoltà finanziarie degli enti locali, ha spinto i medesimi a favorire, senza alcuna programmazione, nuove costruzioni, ad allentare i controlli e, nella sostanza, a svendere il proprio territorio. Una situazione che la cancellazione dell’Ici, voluta da Berlusconi nel 2008, riducendo una parte rilevante degli introiti ai comuni ha ulteriormente aggravato incentivando i medesimi nel favorire nuove lottizzazioni.
Alla stessa logica di svendita del paesaggio e dell’ambiente per fare cassa si rifanno le varie ondate di condoni per gli illeciti edilizi, paesaggistici ed ambientali. Così coloro che hanno violato la legge e sarebbero passibili di sanzioni penali e pecuniarie, nonché, nei casi più gravi, dell’abbattimento degli edifici abusivi, vengono assolti dietro il pagamento di una semplice oblazione.
È del tutto evidente, poi, che la ripetizione a pochi anni di distanza delle sanatorie – come è avvenuto con i governi Craxi (1985) e Berlusconi (1994, 2003, 2004) – oltre a ignorare i moniti della Corte Costituzionale , nel concreto incoraggia ulteriori abusi nell’attesa del prossimo, immancabile, condono. Un rifiuto delle norme, la poca o nulla considerazione per ciò che è pubblico e un egoismo sulla propria proprietà che non può sopportare vincoli o regole, rappresentano sentimenti oscuri e quasi inconfessabili, ma per molti versi innati in tanti italiani che lo slogan del Cavaliere: “padroni in casa propria”, non ha fatto che assecondare. E l’iter del travagliato “Piano casa” del 2008 si ispira pienamente a questa filosofia che fa della “semplificazione”, dell’aggiramento delle regole, il proprio indirizzo che – secondo Settis – non ha trovato una opposizione adeguata neppure da parte delle Regioni governate dalla sinistra.
Modifica della legge sugli oneri di urbanizzazione e condoni, da soli, non sono però sufficienti a spiegare l’abnorme consumo di suolo e l’inarrestabile cementificazione del territorio che, in pochi decenni, ha devastato interi paesaggi della penisola ed è riuscito a vanificare i lavori dei Costituenti che nel ’48 – primo Paese al mondo – posero con l’Art. 9 la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio tra i principi fondamentali dello Stato. I giornalisti Stella e Rizzo per esemplificare ciò che è successo riportano uno studio del 2004 dell’Associazione europea cementieri che evidenzia come: “l’Austria ha prodotto 4 milioni di tonnellate di cemento, il Benelux 11, la Gran Bretagna 12, la Francia 21e mezzo, la Germania 33 e mezzo, la Scandinavia meno di 36 e noi 40,05”.
E il Nord in questo campo non si presenta esente da colpe, ma assorbendo il 47% del cemento prodotto non può scaricare le responsabilità sul resto del paese. La Pianura padana, ovvero l’area agricola più vasta e produttiva della penisola italiana, ha una media di superfici edificate pari al 16,4% dell’intero territorio. È l’intreccio di interessi tra costruttori, cementieri e banche che nel nostro Paese si è consolidato e ha costituito un vero e proprio “partito del cemento” il quale ha progressivamente condizionato la politica e i partiti. “La concretezza del cemento e dei mattoni – ha scritto Roberto Saviano – è l’unica vera materialità che le banche italiane conoscono”.
Un settore che, non dovendo fare i conti con la concorrenza internazionale, ha potuto contare su notevoli profitti da utilizzare in favore delle clientele politiche. Un intreccio di interessi che ha portato a costruire di tutto e dappertutto. Un “partito” che ha anche saputo essere presente, influenzandoli, nei principali mezzi di informazione per veicolare vere e proprie falsità. Non è vero, ad esempio, che si è costruito per dare casa a chi non l’ha: in Italia solo il 4% delle costruzioni sono destinate all’edilizia popolare (il 21% in Inghilterra). È falso che si costruisce perché la popolazione cresce: in Veneto con 280 mila nuovi abitanti si sono realizzate case per 780 mila persone. Il costruire per il costruire in maniera disordinata e senza alcuna programmazione rappresenta, inoltre, per il Paese una scelta antieconomica che va a vantaggio di pochi gruppi in un settore spesso infiltrato e occupato dalla criminalità organizzata. Ed è falsa la dicotomia che vuole l’economia e l’ecologia in conflitto. Mentre i costi economici e umani del “cemento selvaggio” hanno causato in pochi decenni 430 mila frane con 3.500 vittime.
Adesso che la crisi economica sta duramente colpendo anche il settore delle costruzioni, con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, è necessario prendere finalmente atto della devastazione che la cementificazione ha inferto a quello che era universalmente considerato “il Bel Paese” e ripensare al rapporto tra “cemento” e “sviluppo”. Nella piattaforma proposta dai tre sindacati dei lavoratori edili in occasione della manifestazione nazionale dello scorso marzo è presente anche il: “recupero del patrimonio edilizio pubblico, piani di recupero urbano, valorizzazione dei beni culturali” e l’idea di “rafforzare gli incentivi per la riqualificazione del patrimonio abitativo in senso eco-sostenibile”. Va bene, ma non basta.
È indispensabile che l’ambiente e il paesaggio cessino di essere considerati un “limite” e acquisiscano, tra i cittadini, i governi locali e le forze politiche, il “valore” di un bene comune da difendere e preservare per le future generazioni. Un banco di prova per i partiti e il governo che il Paese si dovrà dare nella primavera del 2013 e dove è auspicabile che il futuro ministro delle “infrastrutture” e dello “sviluppo economico” non abbia le caratteristiche di un ex banchiere molto capace, nel suo passato “tecnico”, di finanziare vaste e spesso fallimentari operazioni immobiliari, oltre che infrastrutture pesanti a livello sociale e ambientale.
Gli italiani, con la raccolta delle firme e lo straordinario risultato del referendum contro la privatizzazione dell’acqua, hanno dimostrato di essere, sul tema dei beni comuni, più avanti di gran parte della attuale classe dei politici e degli amministratori. È giunto adesso il tempo per una riscossa civile che in nome della tutela del territorio e dell’ambiente sappia “Salvare il Paesaggio” con gli strumenti della “buona politica”.
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