IL LIBERALISMO, IL MARXISMO E L’UOMO
Nona e ultima parte
IL CONCETTO DI LIBERTÀ
I contenuti della religione cristiana derivano dalla Rivelazione che non è contraddittoria ai dettami della ragione in quanto sta sopra essendo trascendente, riferita da Dio, testimone sincero e buono (Dio, che é perfetto, non può che essere buono: l’aveva già dimostrato Cartesio): “Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce, darà una serpe? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano”! (Matteo 7-9 ss.). Ecco quindi che anche la fede rientra nella conoscenza, anche se probabile e non certa, il judgement.
In conclusione del discorso gnoseologico, Locke paragona la ragione umana a una candela: essa ci illumina, però non su tutta la realtà, anzi, su porzioni ristrette, e non su tutte allo stesso modo, ci rischiara molto bene per quel che riguarda la knowledge “conoscenza”, un po’ meno bene per il judgement “discernimento”. Tuttavia è l’unico strumento di indagine di cui disponiamo ed è stato Dio stesso a fornirci questa candela, che è quanto ci basta per conoscere e progredire, e la nostra ragione, pur non essendo onnipotente, ci é sufficiente, tant’è che può dire la sua anche per quel che riguarda la religione: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” Matteo 22-37.
Oltre che di gnosi, Locke si interessa molto anche di politica ed é spesso considerato l’anti-Hobbes per eccellenza, sebbene egli lavori sul medesimo terreno su cui lavorava il teorico dell’assolutismo. Entrambi liberali, se Hobbes è considerato il teorico dello stato forte in regime di libero mercato (il liberalismo di destra che avrebbe generato l’Impero Britannico), Spinoza di quello democratico che prevede uno Stato che si occupa anche del privato (liberalismo di sinistra), Locke è generalmente considerato il teorico dello stato liberale perfetto: libera chiesa in libero stato (non dimentichiamo che la chiesa anglicana è ancora oggi funzionale allo stato britannico), vita dei singoli ispirata al concetto di libertà cosciente (la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri), Stato piccolo ma molto efficiente nel fare funzionale la cosa pubblica, cioè comune duindi di tutti (magistratura giusta e perfetta, scuola severa ed educativa, sanità certa e vincente), in contesto di libero mercato che rispetta le regiole che impone lo stato.
Ma Locke non fu solo un teorico, avendo anche preso parte alla seconda rivoluzione inglese del 1600, la “Rivoluzione gloriosa ” (1688-1689), una rivoluzione incruenta e pacifica (soprattutto se paragonata alla prima), voluta dalla maggioranza degli inglesi. Una rivoluzione che porta all’aumento della libertà individuale. Proprio in quegli anni Locke scrive i suoi trattati politici, quasi come per dare una giustificazione della rivoluzione.
Sul piano intellettuale la sua opera politica sullo stato nasce come risposta all’opera di un pensatore, Robert Filmer (1588-1653) autore di un trattato intitolato “Il Patriarca o il potere naturale dei re” pubblicata postuma nel 1680. Con quest’opera Filmer sosteneva che il potere del sovrano non è altro che un’estensione del potere del padre sulla famiglia ad un intero stato. Così come Dio ha dato ad Adamo un potere assoluto sulla famiglia e sui figli, da Adamo il potere si é esteso ai patriarchi di Israele per poi arrivare ad investire intere strutture statali. Si tratta quindi di un’idea patriarcale e divina del potere assoluto. Locke il liberale è disgustato da questa teoria che combatte con vigore sostenendo che il potere derivi non già da Dio ma dal consenso degli individui. Anche Locke, come tutti gli altri pensatori secenteschi, sostiene che prima dello stato civile vi fosse un originario e retrogrado stato di natura, tuttavia in esso non vigeva il diritto del più forte – come invece sosteneva Hobbes (liberale di destra) – e il diritto non era di tutti su tutto (liberalismo puro: la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri). Già nel retrogrado stato di natura, secondo Locke vi era il diritto di proprietà, inteso come diritto a ciò che é proprio, per cui ognuno aveva diritto su qualcosa, non su tutto. Locke interpreta il diritto di proprietà come il risultato del lavoro umano (Marx due secoli dopo diceva qualcosa di analogo quando teorizzava la legge della forza lavoro, definita il plusvalore del prodotto dato dalla lavorazione manuale dell’operaio cui esso è sottoposto, e dal quale l’industriale trae profitto ingiustamente).
Ma che cosa è proprio di ciascun uomo? Ciascun uomo ha il diritto di proprietà su se stesso, ossia ciascuno è proprio a se stesso, é padrone del proprio corpo: e questo già nello stato di natura, e qui sta il primo grande contrasto con la teoria comunista dove l’individuo non esiste, è sacrificato a favore della massa proletaria intesa come entità unica per combattere il capitale. Anche per Locke, come per Marx, il corpo può “estendersi” per cui la caratteristica dell’uomo é il saper trasformare la realtà che lo circonda e, nel momento in cui egli trasforma parti della realtà circostante, esse non sono più pura e semplice natura ma inglobano parti dell’uomo stesso che così estende il proprio diritto di proprietà sul suo corpo “ingranditosi” nella natura e nella collettività, nella massa. Se lavoro un terreno, esso non é più solo un dono di natura, bensì è un’unione tra un dono di natura e una parte di me stesso il mio lavoro lo trasforma. E se lo lavoro insieme ad altri quel terreno non è solo mio ma tutti quelli che lo lavorano (liberalismo sociale o delle cooperative).
IL CONCETTO DI PROPRIETÀ
E questo a rigore vale anche per i doni della natura: se stacco una mela da un albero, dono della natura, faccio un lavoro e la mela diventa mia perché non è più solo un dono di natura, ma è anche in parte mio lavoro, mentre per il marxismo la mela non sarà mai mia anche se la collettività mi consentirà di mangiarla.
Per Locke la proprietà è l’estensione, tramite il lavoro, del corpo umano a parti della realtà. Non si tratta quindi di un diritto assoluto (Hobbes), ma di un diritto di ciascuno su qualcosa (diritto relativo). Queste premesse lockiane porteranno molti pensatori al socialismo e al comunismo, per cui si arriverà a dire che il valore di una cosa sta nel lavoro che l’ha prodotta (forza lavoro). Locke conosce i pericoli del socialismo (che non è un’invenzione di Marx) e in questo senso afferma che il governo deve restare nelle mani degli aristocratici, nel senso di “governo dei migliori” nel quale poche persone (i “migliori”) controllano interamente lo Stato. Locke era un illuminato e la sua teoria è anche alla base dello sviluppo eccezionale dell’illuminismo e della massoneria inglesi del settecento.
In sostanza Locke, pur essendo un innovatore, è anche un conservatore, perché conserva le cose buone (conservazione) e butta quelle meno buone che sostituisce con cose nuove e migliori (innovazione) e arriva a teorizzare che con l’appropriazione tramite il lavoro si possa accumulare la ricchezza, generando così delle disparità economiche. Ciò garantisce lo sviluppo della società perché i migliori, nella legalità, non hanno lacci e lacciuoli (per dirla con Luigi Einaudi, grande liberale italiano del XX secolo) e possono sviluppare il massimo delle proprie energie a beneficio proprio e della società intera. Per fare ciò i migliori devono essere retribuiti adeguatamente, per cui se un operaio guadagna 100, un imprenditore o un dirigente capaci, devono guadagnare in proporzione al beneficio che il loro lavoro consente a tutti, per cui possono percepire stipendi da 100 in su, senza limite, in proporzione al beneficio prodotto. Naturalmente tutto ciò deve svilupparsi nell’ambito di uno Stato efficiente e giusto che garantisca la piena legalità e stronchi immediatamente abusi e prevaricazioni. Uno Stato che fa applicare la legge senza guardare in faccia a nessuno, affinchè trionfi la meritocrazia e sia stroncata la corruzione.
Secondo Locke, se il diritto di proprietà è già insito nello stato di natura, è evidente che una volta costituito lo stato civile, il sovrano non potrà privare i sudditi di questo diritto, in quanto lo potrebbe fare solo se fosse stato concesso dal sovrano con lo stato civile, ma dato che è a monte dello stato civile stesso, va rispettato in ogni caso.
Per Hobbes invece il sovrano poteva revocare il diritto di proprietà proprio perché esso nasceva con lo stato civile: il sovrano l’ha concesso e il sovrano può revocarlo. Per Locke è l’esatto contrario: il diritto di proprietà c’era già nello stato di natura: il sovrano non l’ha concesso e quindi non può toglierlo. È curioso notare come Marx sia in questo caso più simile a Hobbes che a Locke quando afferma che la proprietà non esiste se non intesa come proprietà dello stato socialista, esattamente come Hobbes afferma che la proprietà è del re (stato monarchico).
Locke afferma con forza la proprietà privata, vero anticorpo contro la massificazione e la mediocrità.
Per Marx invece la proprietà privata deve essere eliminata in quanto espressione della vita umana alienata, la soppressione di essa e dei rapporti sociali che la generano e la tutelano non è che la soppressione di qualsiasi alienazione.
Per Locke l’alienazione si supera con la meritocrazia liberale: i migliori hanno di più e in questo modo producono ricchezza per tutti. Per il grande pensatore liberale la società civile nasce da un’esigenza materiale: ognuno produce qualcosa, ma unendosi tutti insieme ci potrà essere una cooperazione per cui io produco questo, tu quello, lui quell’altro e ce li scambiamo (mercato). Dunque lo stato civile nasce come accordo tra gli uomini a cedere il potere ad una persona detta sovrano affinché essa garantisca quei diritti già esistenti nello stato di natura, in primo luogo proprio il diritto di proprietà. Lo stato, dunque, non deve concedere nuovi diritti, ma deve solo limitarsi a mantenere quelli già esistenti, rendendo la società più stabile e sicura. Ognuno potrà quindi lavorare e scambiare con gli altri senza che lo stato intervenga per limitare i suoi affari o per impedirglieli (liberalismo economico).
È questa la cosiddetta idea dello “stato poliziotto”, ossia dello stato che non interviene nella società se non per garantire la correttezza nei rapporti sociali. Lo stato deve agire allo stesso modo in cui agiscono i poliziotti nei mercati dove non hanno nulla a che fare col mercato e si limitano a controllare che non vi siano irregolarità, ma il mercato funziona per conto suo.
È il Il laissez-faire (letteralmente “lasciate fare” in francese), principio proprio del liberalismo economico, favorevole al non intervento dello Stato. L’azione del singolo nella ricerca del proprio benessere è sufficiente a garantire la prosperità economica della società.
L’espressione, che nella sua interezza suona laissez faire, laissez passer (“lasciate fare, lasciate passare”), viene per lo più attribuita al liberale francese discepolo di Locke J.C.M. Vincent de Gournay (1712-1759), avversario, come i fisiocratici, del tradizionale centralismo regolamentatore colbertista, ma più attento di loro alla realtà non agricola, ossia artigianale-industriale e commerciale, del paese. Per Locke non occorre nessun intervento in campo economico se non quello di prelevare imposte dai guadagni privati degli individui in modo da poter garantire quei servizi pubblici che ridondano poi a beneficio di tutti e di ciascuno.
SOCIETÀ CIVILE E STATO
Questa teoria che sta alla base del liberismo economico e che sarà accolta con entusiasmo nel 1700 dai fisiocratici, prevede che lo stato intervenga solo per far funzionare meglio la società, e deve essere uno “stato minimo” che prende atto dell’esistenza della società e la difende: ecco allora che Locke distingue per primo tra società civile e stato. Questa distinzione in pensatori quali Hobbes non c’era, proprio perché la società nasceva come conseguenza della nascita dello stato, ma per Locke una forma di società, seppur arcaica e rudimentale, è già presente nello stato di natura e lo stato civile serve solo a rafforzarla e a proteggerla.
È lo stato stesso che nasce come conseguenza della società, la quale sente il bisogno di trovare un garante della libertà e della sicurezza. L’atteggiamento lockiano prevede una notevole limitazione del potere dello stato: il contratto sociale è stipulato tra i sudditi e il sovrano, dove si stabiliscono diritti e doveri cui anche il sovrano, proprio perché ha firmato il contratto, deve attenersi. I sudditi gli danno il potere affinché egli garantisca loro determinati diritti, lui firma e di conseguenza, accanto ai diritti, ha anche i doveri (garantire l’ordine e i diritti ai sudditi).
Il sovrano-stato se infrange il contratto sociale vi é il diritto di ribellione da parte del popolo (liberalismo giacobino – Robespierre – rivoluzione francese).
Hobbes aveva negato il diritto di ribellione proprio perché il sovrano per lui non firmava nessun contratto per cui se non firma il contratto non può infrangerlo e quindi non vi é motivo di ribellione.
Ma in Locke il sovrano-stato firma idealmente il contratto e quindi può infrangerlo, e se lo infrange ci deve essere la ribellione ed è proprio quel che avviene negli anni in cui scrive Locke e che lui stesso supporta. Locke é quindi teorico del liberalismo politico in quanto sostiene che ogni cittadino abbia il diritto alla libertà individuale e che vi siano dei diritti individuali insormontabili addirittura per lo Stato.
È poi anche in un certo senso il teorico del liberismo economico in quanto è convinto che lo stato non debba intervenire nell’economia dei singoli cittadini, imponendo dazi e norme che limitino la libertà.
In campo politico, Locke è anche il grande teorico della divisione dei poteri che rende meno “pesante” e autoritario il governo. La divisione dei poteri è centrale nelle teorie liberali e prevede l’articolarsi della sovranità in poteri tra loro indipendenti. Controllandosi l’un l’altro i poteri (giudiziario, legislativo ed esecutivo: magistrati, politici, governo) vi é più spazio per la libertà del singolo e si garantisce un equilibrio per evitare la dittatura. Per Locke non devono essere le stesse persone a fare le leggi e ad applicarle, per cui nasce la distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo. Se i due poteri fossero entrambi concentrati nelle mani di una sola persona il singolo rimarrebbe schiacciato.
Il concetto di potere giudiziario sarà sviluppato nel 1700 da Montesquieu, che è stato allievo di Locke. La divisione dei due poteri, esecutivo e legislativo, è fortissima negli Stati Uniti d’America che risentono fortemente del pensiero di Locke fin dai tempi della Rivoluzione Americana quando si opponevano alla madrepatria inglese citando le parole di Locke: No taxation without rappresentation “Niente tasse senza rappresentanza (in parlamento)” rifiutandosi di pagare le tasse senza avere una loro rappresentanza in Inghilterra.
Il pensiero politico di Locke è in gran parte alla base del pensiero politico giacobino, soprattutto nella prima fase, quella meno drammatica. La stessa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1789 deve molto a Locke. Il pensatore liberale inglese, inoltre, diede molta importanza anche all’educazione, riprendendo in buona parte il latino Quintiliano: il bambino deve essere educato a seconda delle sue attitudini e non vanno mai in nessun caso applicate pene corporali che, nell’ottica liberale di Locke, vanno contro la libertà del singolo, oltre a non educare. Chi le ha subite da ragazzo diventerà vile per paura o violento per ripicca. Locke vuole un’educazione ferma ma tendente a sviluppare un concetto di libertà cosciente e non selvaggia (la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri). Un’educazione libera e liberale.
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